Capitolo 847: Il fulmine governa ogni cosa.

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Cesare era ancora profondamente scosso. Aveva apprezzato moltissimo il modo in cui il suo Michelotto aveva fatto cadere nel giro di un paio di giorni Vicovaro, Bracciano, Palombara, Cerveteri e perfino la rocca di Ceri. Tutti quei trionfi quasi rendevano secondaria la strenua difesa che il castello di Bracciano si ostinava a portare avanti.

Tuttavia quanto accaduto quella mattina lo aveva sconvolto e, per quanto lucidamente dovesse dirsi grato agli uomini del Corella per avergli salvato la vita, non riusciva a perdonare proprio Miguel che, dopo avergli assicurato che il campo era libero e sgombro di pericoli, lo aveva convinto a passare proprio accanto alla rocca appena presa, rendendolo quasi vittima di un attentato mortale.

Il fante guascone che aveva cercato di colpirlo con una balestra era stato subito fermato e punito, ma il Valentino non poteva scordare il rumore sibilante del dardo che gli sfiorava il volto.

Anche in quel momento, mentre attendeva proprio l'arrivo di Michelotto, al sicuro, in una delle ali più protette della rocca appena conquistata, non riusciva a calmarsi. Era stato così vicino alla morte da poter sentire addosso le sue mani gelide.

Il Borja, che da quando aveva lasciato Roma tre giorni addietro era perseguitato da qualche brivido di febbre e da un senso di malavoglia che non gli dava pace, in quel momento si sentiva distintamente febbricitante e desideroso, solo, di un po' di vino e di un letto comodo su cui riposare.

Eppure, prima voleva fare una ramanzina ad hoc al suo Miguel che, con la scusa dell'essere il suo amico più stretto e fidato, quel giorno si era preso troppa libertà, mettendo a repentaglio la sua vita, mancando della prudenza necessaria.

Cesare attese e attese, ma alla fine Michelotto non si presentò. Al suo posto si palesò Ugo di Moncada, ancora sporco per la battaglia, a chiedergli se volesse raggiungerli tutti al desco, per festeggiare la vittoria.

Non avendo voglia di arrabbiarsi e sentendo lo stomaco vuoto, il Borja accettò e si presentò al banchetto come richiesto. A tavola, a parte alcuni condottieri che quasi non conosceva, c'erano Ludovico della Mirandola e il maestro Leonardo. Michelotto, seduto distante dall'unico scranno lasciato libero, finse di non vederlo nemmeno, così il Duca si sistemò proprio accanto al toscano, tenendosi sulla sinistra il Moncada che l'accompagnava.

Dopo canti e motti vari, tra il vino e il cibo, Cesare chiese a Leonardo, che sembrava molto infastidito dal clima goliardico che si era venuto a creare: "Voi avete conosciuto Caterina Sforza, di Milano?"

Prima che il vinciano potesse rispondere, però, il figlio del papa aveva già ricominciato a parlare, ricordando a voce alta quanto lui la conoscesse bene e di come, di recente, avesse avuto modo di parlare con la di lei figlia.

"Quella ragazzina – fece il Borja, staccando un pezzo di carne dal cosciotto di pollo che aveva in mano – vale ancor meno della madre..."

"Madonna Sforza è a Firenze, mi hanno detto..." fece Leonardo, guardando altrove, per non lasciarsi distrarre dall'immagine ferale del Valentino che masticava a bocca aperta, cacciando in gola il boccone con un sorso abbondante di vino.

"A proposito di Firenze!" sbottò il Duca, seguendo il filo invisibile dei suoi pensieri, mentre il suo eloquio si faceva sempre più impastato e la sua vista iniziava a sdoppiarsi: "Mi hanno mandato il nuovo ambasciatore, qualche settimana fa... Un certo Salviati. Un uomo insulso che sa solo dire sì e no tutto il tempo... Quasi preferivo quel gran cortigiano di Machiavelli..."

Leonardo fece un sorriso di prammatica, ma non disse nulla, mentre Ugo di Moncada, dall'altro fianco del Borja, commentò, aspro: "Firenze imparerà a far quel che deve fare solo quando marceremo in armi sull'Arno."

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo (Parte V)Where stories live. Discover now