Capitolo 9.2 ... Le tre tuniche

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Taopi

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Taopi

La seconda tunica

Il fatto mi rese ardita e la sera seguente ebbi il coraggio di chiedere a Wanapeya il permesso di realizzare un vestito per Taopi, per restituirle il favore di quella prima veste donata, con il segreto desiderio di attirarmi un po' di simpatia da parte sua. Il giovane capo non rispose né sì, né no, ma la mattina dopo chiamò me e la mia amica molto presto e ci ordinò di seguirlo nella battuta di caccia: era stata avvistata una piccola mandria di bisonti, un vero dono della provvidenza per affrontare il lungo inverno freddo che si avvicinava. Partimmo con altre squaws dietro al gruppo di una decina di guerrieri, alcuni armati di arco e frecce ed altri di carabina; solo Wanapeya possedeva un winchester, che sapevo rubato e poi donato dal dottor Milton.

Meoquanee mi si affiancò a cavallo e mi disse:

- Wanapeya ha mandato a chiamare mio padre. Presto verrà a prendermi e andrò via.

La notizia mi rattristò.

- Come me la caverò da sola? - domandai quasi tra me e me.

- Tornerò presto - mi rassicurò la mia dolce amica - Tornerò a prenderti con Ben. Pagheremo un riscatto per te.

La ringraziai caldamente. Forse c'era la speranza di rivedere i miei cari, chissà come erano in apprensione per la mia vita! Ma ragionai che se Ben riusciva a contattare il padre di Meoquanee, questi gli avrebbe dato informazioni anche sulla mia salute.

Cominciò la caccia e dopo di essa il duro lavoro delle donne; Meoquanee mi mostrò come dovevo dividere l'animale in due parti sezionandolo lungo la colonna vertebrale, come scuoiare e adagiare ai lati i due brandelli di pelle e su di essi disporre i tagli di carne. Mi insegnò a tagliare e separare i pezzi più pregiati da quelli non destinati all'alimentazione, ma ad altri usi; appena il tappeto di pelle era colmo lo chiudevamo e caricavamo su una treggia, appoggiata sul cavallo. Mi imbrattai di sangue, inesperta com'ero, io, che sono sempre stata una maniaca della pulizia, ma imparai dagli indiani un'usanza che mi piacque in modo speciale: ringraziare lo spirito dell'animale per il dono della vita che gli veniva sottratta per sostenere la nostra; questa loro consuetudine, che adottai da allora in poi, mi aiutò ad esser grata a Dio per il dono del cibo quotidiano e mi ispirò a ringraziare Colui che aveva donato volentieri la sua vita per riconquistare per me il Regno dei Cieli.

Wanapeya mi regalò una di quelle pelli per confezionare il vestito di Taopi e con entusiasmo le preparai una tunica invernale, la ricamai sontuosamente come se fosse un vestito da sposa e poi, dopo una lunga indagine, vi disegnai la sua famiglia: nel retro i simboli che rappresentavano il marito e i figli, nella parte anteriore, il volto dei suoi cari. Per realizzare tutto questo mi fu necessario chiedere aiuto non solo a Meoquanee, poiché ella non li conosceva bene, ma anche alla sua amica Tacicala e allo stesso Wanapeya che si prestò molto volentieri a collaborare per ricostruire i lineamenti dei tre pellerossa e a rivelare il loro nome. Il marito di Taopi si chiamava Cetan Sapa, Falco Nero, e lo rappresentai come un falco con le ali aperte che sovrastava i suoi figli: il maggiore, Matoha, pelle d'orso, che disegnai come un cucciolo d'orso sulle quattro zampe e il minore, Wagnuka, picchio, un animale che immaginai grazie agli occhi e alla memoria del giovane capo. Nella parte anteriore, sul petto e simbolicamente sul cuore, dipinsi stilizzati ma riconoscibili a detta dei miei aiutanti, i volti dei suoi cari.

Nel preparare questa veste mi vennero in mente molte perplessità: non conoscevo Taopi, si capiva che non le ero simpatica e avendo già avuto esperienza con Wanapeya, intuivo che ella avrebbe potuto reagire in maniera molto negativa nei miei confronti. Quelle immagini avrebbero riaperto dolorose ferite, che cosa avrebbe fatto? Avrebbe accettato il dono o lo avrebbe distrutto? Mi avrebbe considerato invadente? Avevo il diritto di dipingere i suoi cari? Tutti questi pensieri mi tormentarono prima e durante la confezione della tunica e per proteggermi da essi affidai quest'opera fin dal principio al buon Dio, offrendogli le mie buone intenzioni e gli domandai che quell'abito potesse consolare Taopi, perché avrebbe portato con sé all'altezza del cuore il ricordo dei suoi cari.

Quando mi diressi verso di lei con la mia amica Meoquanee, ella era intenta ad accendere il fuoco per cuocere la carne; vide che stavo arrivando, distolse lo sguardo e poi salutò soltanto Meoquanee.

Le porsi la tunica ben piegata, mentre la mia giovane amica cheyenne le spiegava il motivo del regalo. C'era Manišni accanto a lei, che la distoglieva dal suo compito portando via i pezzi di legno che lei cercava di aggiungere al fuoco; il bimbo voleva giocare ma ella lo rimproverò duramente, forse a causa della mia presenza.

Prese la tunica dalle mie mani e la poggiò di lato continuando a soffiare sulle fiamme che faticavano ad arrampicarsi sui tronchetti di legna umida di rugiada. Non mostrava di volerci dedicare altra attenzione e Meoquanee mi fece cenno di andar via, forse quello non era un buon momento: Taopi era impegnata e adirata con il bambino.

Girammo la schiena allontanandoci, ma dopo appena qualche passo un grido rabbioso ci obbligò a voltarci: Taopi, il viso stravolto, fissava la tunica e balbettava; capii a stento ciò che diceva, chiamava il marito e i figli. Poi con un gesto improvviso buttò la veste sul fuoco e gridando, scappò via.

Corremmo.

Io strappai il vestito dalle fiamme con uno strattone e lo ripulii dalla cenere; per provvidenza non si era rovinato, né macchiato. Meoquanee mi consigliò di piegarlo e lasciarlo davanti al tepee; se Taopi avesse voluto bruciarlo non potevamo impedirlo, era giusto accettare la sua volontà. Io annuii molto addolorata, ma sapevo che non si poteva fare altrimenti. Non c'era stata la reazione che speravo, soprattutto per il faticoso lavoro che aveva impegnato me e le persone volenterose che mi avevano supportato (e mi dispiaceva soprattutto per Wanapeya), ma ringraziai ugualmente il Signore ben conscia che gli eventi sono guidati da Lui anche quando non rispecchiano i nostri voleri; gli offrii questa delusione cercando di soffocare l'amarezza; poi mi accorsi che il pensiero mi ritornava spesso sulla fatica inutile e sulle buone intenzioni che mi avevano guidato. Compresi che il mio orgoglio stava prendendo il sopravvento. Evidentemente le mie intenzioni non erano pure come credevo. Per rimediare affidai a Dio anche l'amarezza di quella prova chiedendogli di farmi crescere in umiltà.

Dopo qualche ora notai Taopi in lontananza che passeggiava con il piccolo Manišni tenuto per mano; non credevo ai miei occhi: indossava la tunica nuova! Appena mi vide accelerò il passo finché non mi raggiunse, mi diede una lunga occhiata (mi stupii, non mi fissava mai negli occhi), e poi imprevedibilmente mi si lanciò addosso avvolgendomi strettamente tra le braccia.

- Pilamayaye! - ripeté più volte piangendo a dirotto. Restò così avvinghiata a me diversi minuti mentre Wanapeya stava lì fermo a guardare. Mi vennero le lacrime agli occhi: Dio è grande!

WANAPEYA, HO AMATO UN INDIANOWhere stories live. Discover now