7. All the things she said

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Non c'è mai soltanto una macchina da presa. Nell'area di Borgonatio, ad esempio, ce ne sono quattromilaquattrocentotrentacinque: una per testa.

E a ogni macchina da presa corrisponde una pellicola a sé, un plot autonomo rispetto a tutti gli altri. 

Non importa se le ambientazioni e i soggetti sono gli stessi. Che si tratti di una postura, di un'azione, un silenzio o una pausa, non c'è elemento scenico che non assuma significati ulteriori in base alla sequenza nella quale è inserito; perché il protagonista di una storia può essere l'antagonista di un'altra, declassarsi a comparsa o ridursi a niente. Tutto, attorno a lui, può cambiare a seconda del punto di vista. E l'individuo autentico, al di là del caleidoscopio di specchi che lo vedono riflesso, resta sempre celato, immortalato negli inganni di prospettiva delle riprese.

In questa pellicola, in particolare, Viola Boeri ha una figlia.

È il 22 settembre del 2003, sono le sette e un quarto del mattino e il sole è sorto da poco sopra la cresta dell'Appennino. I suoi raggi penetrano attraverso la tenda bianca della finestra vicino all'ingresso, illuminano fiochi un quarto della stanza e risplendono sulle pratiche dell'avvocato divorzista, lasciate a prendere la polvere sul tavolo da pranzo. La donna, quarantatré anni, se ne sta in piedi al centro del salotto, dietro alla sedia e, tra i vari oggetti disseminati sul centrino ricamato, sceglie solo la cartella delle circolari interne dell'Amerigo Travels. La infila nella borsa che porta a tracolla e chiude il bottone.

– Chiara! – grida senza voltarsi.

– Sì, arrivo!

Viola Boeri, per tutta una serie di ragioni, si sente già a un passo dall'esaurimento nervoso. Perciò, quando l'adolescente si affaccia dal corrimano in legno chiaro con lo zaino appeso a un'unica spalla, lei non riesce a far altro che squadrarla di sbieco, scandagliando ogni centimetro della sua indecorosa apparenza. 

"Ci deve pur essere un modo per aggiustarla," si dice. Ma, purtroppo, non gliene viene in mente nessuno. 

Perché, a meno di non imporle una parrucca che non farebbe altro che sottolineare l'elemento di dissonanza, sua figlia ha optato per uno dei pochi gesti di ribellione che risultano scomodi da nascondere. Avrebbe potuto decidere di iniziare di colpo a vestirsi e a truccarsi come una poco di buono; avrebbe potuto farsi un tatuaggio di nascosto, un piercing all'ombelico, o iniziare a bere e a drogarsi. Ognuna di queste cose avrebbe potuto essere dissimulata. 

Invece, sua figlia ha scelto di raparsi a zero senza alcuna ragione apparente. Ha scelto che non le importava niente di cosa avrebbero pensato di lei, come madre. E questa, per Viola Boeri, non può essere inquadrata altrimenti che come una scelta dettata dal preciso proposito di darle fastidio. Adesso, l'unico modo che le resta per uscirne con dignità agli occhi del resto del paese è fingere di non trovarci niente di strano.

Viola Boeri percepisce in anticipo la fatica che una simile performance comporterà, in aggiunta a tutte quelle che sta già mettendo in pratica da diverse settimane allo scopo di ridurre le chiacchiere sul suo divorzio da Franco. Vorrebbe solo strozzare sua figlia.

Di colpo, distoglie lo sguardo, resta rigida per alcuni secondi. Poi allunga di nuovo la mano sul tavolo e afferra la confezione di Lexotan.

– Sbrigati, – borbotta, – se vuoi che ti accompagni io.

– Sì.

In questa pellicola, Viola Boeri ha una figlia. Oltre a questo, ha anche la precisa consapevolezza di tutte e le quattromilaquattrocentotrentacinque macchine da presa di Borgonatio puntate su di lei, e sente che ogni singolo scomparto del suo cervello è già pieno fino all'orlo e di non avere spazio anche per questo.

La strategia del Coyote RossoWhere stories live. Discover now