Capitolo 6 | Vicinanza

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La tempesta si stava rivelando molto più intensa di quanto avessimo immaginato. La neve cadeva copiosamente ed il vento ululava, trasformando la città in un mare bianco, costantemente spazzato dalle correnti. Le strade erano ormai completamente impraticabili, coperte da cumuli di neve che ne rendevano impossibile l'accessibilità. Non c'era modo di uscire di casa, eravamo bloccati, isolati dal resto del mondo, frenati dall'esortazione a non allontanarsi dall'abitazione, estesa ai cittadini su tutto il territorio regionale. La convivenza prese così una piega inaspettata: di punto in bianco, eravamo costretti a trascorrere più tempo insieme, molto più di quanto avessimo preventivato.

Passammo i primi due giorni di chiusura fissi in salotto, con la tv perennemente accesa e ferma sul canale che trasmetteva le regolari dirette del notiziario. C'erano ore che sembravano non passare mai, mentre l'ansia avanzava e l'impazienza cresceva, con i giornalisti che non parlavano d'altro che dei danni e delle problematiche causati dalla tormenta. Era un momento di nervosismo estremo, in cui la preoccupazione da sola giocava il ruolo del sovrano, in quella situazione oltremodo surreale; era come se il mondo fosse stato avvolto da uno spesso mantello di lana bianca che, con il suo peso, aveva bloccato tutto.

I pensieri negativi che avevano iniziato ad infestarci la testa arrivarono ad un punto tale che, la mattina del terzo giorno, concordammo sull'inutilità della tv come fonte di aggiornamenti. Decidemmo quindi di informarci soltanto due volte al giorno, al mattino e alla sera, in concomitanza dei pasti.

Durante il resto della giornata, così come per i giorni precedenti, io e Daphne parlammo di rado. In un clima tanto agitato, mi sembrò di ricadere nel baratro della diffidenza che, fino a qualche tempo prima, ci aveva quasi inghiottiti per intero.

La mia inquietudine si manifestò quella stessa notte, quando mi svegliai di soprassalto, colto alla sprovvista da un violento incubo. D'istinto, scalciai via le coperte, rimanendo a fissare il soffitto per alcuni minuti, prima di alzare la testa e osservare il mio corpo: sudato, gli arti erano tesi, le vene in vista, le mani ben ancorate al materasso. Mi feci forza, scesi dal letto e, dopo aver lanciato un'ultima occhiata alle lenzuola ingarbugliate sul pavimento, mi cambiai, prima di aprire la porta e volgere verso il bagno.

In corridoio, nel buio più profondo, un lieve chiarore si levava dall'ingresso del salotto, illuminandone fiaccamente i contorni. Incuriosito, mi avvicinai, affacciandomi allo stipite della porta: rannicchiata sul tappeto, Daphne, avvolta in una grossa coperta, contemplava in silenzio la tempesta che infuriava fuori dagli scuri. La fioca luce gialla proveniente dalla lampada, accesa sul tavolino, creava un'atmosfera intima e raccolta.

"Non dormi?" le chiesi, facendomi vicino.

Lei, gli occhi socchiusi, mi guardò: "Non riesco" rispose.

Mi accovacciai e mi sedetti al suo fianco, le gambe incrociate all'altezza del petto.

"Anch'io non riesco. Non più".

Guardai fuori dalla finestra, osservando la neve che continuava a cadere senza tregua: "È incredibile quanto sia intensa questa tempesta" commentai.

Fece un cenno di assenso.

"Ti spaventa?" le chiesi.

"Abbastanza, mai visto nulla del genere"

"Io si, in realtà".

Ci fu un attimo di silenzio, prima che Daphne mi squadrasse il viso da cima a fondo: "Davvero?"

Ricambiai con piacere il suo sguardo: "Non qui, naturalmente. Ero a casa, in Polonia. Lì è quasi la norma, di questi tempi".

Abbassò gli occhi e sembrò riflettere sulle mie parole, stringendosi ancor di più nella coperta, le iridi leggermente oscurate.

"Vengo da Danzica, comunque" dissi.

"Cosa?"

"Danzica. È il nome della mia città"

"E' molto lontana da qui?"

"Circa due ore e mezza di aereo"

"Manchi da tanto?"

"Mancare non è il termine giusto. Torno spesso, ma ogni volta la mia permanenza è sempre più breve della volta precedente. A volte mi fermo anche solo per poche ore. Le volte in cui resto un po' di più, invece, uso casa solo per dormire"

"Per via degli allenamenti, immagino".

Annuii: "E' diventata la mia professione, ormai. Le gare che faccio fuori sono un po' come dei viaggi di lavoro".

Calò nuovamente il silenzio, interrotto soltanto dal rumore dei rami degli alberi che sbattevano contro il vetro della finestra.

Colsi l'occasione per osservarla: accovacciata a quel modo era ancora più minuta di quanto non fosse in realtà, il capo poggiato alle ginocchia, strette forte al petto. I lunghi capelli neri scendevano mossi sulla pesante coperta di lana che le nascondeva la schiena, le ciglia lunghe, le labbra carnose, l'espressione stanca e malinconica.

"Tu sei inglese, vero?" le chiesi.

Mi guardò meravigliata: "Si. Come hai fatto a capirlo?"

"Senza offesa, ma il tuo accento sofisticato non aiuta a nascondere la tua vera identità".

Il suo volto si illuminò lievemente: "Vengo da Shrewsbury, una cittadina vicino Birmingham"

"Ti sei trasferita da molto?"

"Sono arrivata subito dopo il college. Avevo poco più di diciotto anni. Ho frequentato l'università qui a Londra e, dopo la laurea, ho trovato lavoro. Quindi, circa sei anni. Penso di essermi stabilita, ormai".

Sentii il sorriso, che fino ad allora aveva dominato le mie labbra, appassire leggermente: "Ti invidio un po', sai?"

"Ma se hai una carriera eccezionale"

"Nulla da ridire, in quel senso"

"Allora perché?"

Sospirai, fissando un punto indefinito alle sue spalle: "La stabilità di cui hai parlato," ammisi "è un qualcosa che a me manca. Certo, lo sport mi ha aperto molte porte, ma non mi sento mai fermo. Ho un posto che posso chiamare casa, ma non uno in cui piantare radici. Alle volte, il solo pensiero mi fa sentire insicuro"

"Hai la possibilità di stabilirti da qualche parte?"

"La possibilità sì. La motivazione no"

"Motivazione?"

"Devo poter rispondere alla questione perché trasferirmi. Penso sia quella la chiave"

"Deve per forza esserci un motivo?"

Tornai a guardarla, interrogativo.

"Mi spiego." continuò "Deve esserci per forza qualcosa che ti blocca e ti costringe a restare da qualche parte? Non basta la tua volontà? Voglio trasferirmi oppure voglio la mia indipendenza, per quanto idealiste queste affermazioni possano risultare, non sono abbastanza?"

Le parole di Daphne mi fecero riflettere, arrivando a stravolgere alcune delle mie più vecchie convinzioni, tanto da farmi avvertire una sorta di polverone smuoversi all'interno dello stomaco. La sua voce, il suo tono mi entrarono, da quel momento, in testa, iniziando a scuotermi dall'interno, attraendomi, per di più ed inesorabilmente, a lei.

Rimanemmo così, svegli fino alle prime luci dell'alba, a conversare sulla questione. Con la curiosità di un bambino, continuai ostinato a porle quesiti e a discutere con lei, voglioso di sfamarmi delle sue parole, finché, stremato, mi addormentai.

Allo sciogliersi della neveKde žijí příběhy. Začni objevovat