19. FIORI ROSA, FIORI DI PESCO

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Gioia e amore. Rose e farfalle. Arcobaleni e luce.

Pensavo a questi tre binomi mentre partecipavo al giorno più importante di quello che consideravo mio fratello.

Il mio cuore batteva con forza nel petto mentre osservavo la sua fidanzata percorrere la navata stretta al fianco di suo padre, anche lui visibilmente emozionato. La luce solare che filtrava dalle vetrate colorate dell'abbazia creava un'atmosfera magica, mentre la melodia dolce del violino riempiva l'aria circostante.

Accanto a me, Daniele si teneva saldo, una mano sulla mia spalla come segno di sostegno e solidarietà. Insieme avevamo attraversato gioie e dolori, e ora eravamo qui, testimoni privilegiati di uno dei momenti più importanti della sua vita.

Il mio sguardo si posò su Camilla, splendida nel suo abito bianco, irradiante felicità e amore. Era come un angelo che discendeva dal cielo per unirsi a Daniele in un vincolo eterno.

Ricordai quando mi aveva accennato della sua infatuazione per questa studentessa di Biologia. All'epoca, era una ragazzina acerba. Carina, ma niente di eccezionale. Ora, invece, era diventata una giovane donna volitiva e determinata.

La sua dolcezza e il suo modo di fare materno e affettuoso si sarebbe adattato perfettamente a quello di mio cugino.

In tutti questi anni li avevo osservati, avevo osservato il loro modo di sorridersi, di viversi, di amarsi. Se il concetto di anime gemelle esistesse davvero, forse sarebbe stato per loro due.

Tuttavia, non potetti non pensare a me e alla nostra differenza.

Daniele ce l'aveva fatta. Aveva costruito con dedizione la sua vita e ora si preparava a vivere il futuro che aveva sempre sognato con la sua donna.

Ma io?

Da quando erano morti i miei, avevo sempre cercato di fuggire via da Camerino. Avevo sempre cercato la serenità altrove. Anestetizzavo i sentimenti con prove al limite dell'adrenalinico e cercavo il più possibile di provare emozioni forti, per non pensare.

Il peso del senso di colpa mi aveva inghiottito interamente, avvolgendomi in un'atmosfera di rimorso e autoaccusa. Mi sentivo responsabile per la loro morte, come se avessi potuto fare qualcosa per evitarla, come se avessi dovuto proteggerli meglio.

Ricordavo quella tragica notte di pioggia battente, quando i miei genitori si erano messi in macchina per venirmi a cercare. Non avrebbero mai dovuto essere lì, sulla strada, in quelle condizioni meteorologiche avverse. Eppure, la loro morte era stata una tragica realtà, un evento che aveva scosso le fondamenta della mia esistenza.

Mi ero ripetuto mille volte che, se solo avessi fatto qualcosa di diverso, se solo fossi stato più attento, più presente, più obbediente, avrebbero potuto essere ancora qui con me. Ma il senso di colpa mi divorava dall'interno, rendendomi prigioniero dei miei stessi pensieri.

E così, per anni, avevo cercato di scappare da quel senso di colpa, cercando la fuga altrove, nell'ebbrezza delle emozioni forti e nelle prove al limite dell'adrenalinico. Ma anche lì, in quei momenti di pura eccitazione, il senso di colpa mi seguiva, come un'ombra oscura che non mi abbandonava mai.

Era un pensiero che mi assillava costantemente, che si insinuava nei recessi più oscuri della mia mente, avvelenando ogni speranza di felicità e ogni tentativo di costruire qualcosa di duraturo. Avevo il timore perenne che le persone che mi stavano intorno fossero condannate a subire la stessa sorte di coloro che mi erano stati più cari o, peggio ancora, a precipitare nel baratro della mia stessa esistenza tormentata, come Serena.

Le tragedie del passato mi avevano lasciato una ferita profonda nell'anima, una cicatrice indelebile che mi ricordava costantemente la mia incapacità di proteggere coloro che amavo. Ogni volta che mi avvicinavo a qualcuno, sentivo il peso schiacciante di quello che era stato, il fardello insopportabile del mio destino maledetto.

Come la luna sull'acqua chiara.Where stories live. Discover now