52. TORTURE

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Jack non aveva idea di dove si trovasse. Era buio, freddo, e non riusciva a muoversi. Aveva le braccia incrociate all'altezza dell'addome, come se le maniche della tuta che indossava fossero state saldate dietro la sua schiena. Sotto di sé e contro le vertebre avvertiva il freddo metallico di una sedia. Lo avevano ancorato a essa, per impedirgli qualunque movimento.

Gli avevano rasato la testa, posizionandovi degli elettrodi che erano collegati a una macchina, unica fonte di luce nel buio. Quell'aggeggio monitorava le sue funzioni vitali e, allo stesso tempo, pompava una sostanza nel suo sangue. Jack riusciva a seguire con lo sguardo il percorso di un tubicino cavo, che scompariva nel buio e poi risaliva lungo la sedia, raggiungendo la sua tempia destra. Quel liquido ambrato entrava direttamente nei vasi sanguigni che portavano ossigeno e sostanze nutritive al cervello. Il suo corpo era intorpidito, il ragazzo riusciva a stento a muovere le dita delle mani e dei piedi nudi. La sua lingua era quasi insensibile e riusciva a stento a tenerla all'interno della bocca. In quanto al collo, non riusciva a reggere il peso della testa, che ricadeva sul cuscinetto rigido di cui era provvista la sedia.

Un catetere fuoriusciva dall'orlo smangiucchiato della tuta, perdendosi nel buio.

Jack cercò di deglutire, ma ottenne il solo effetto di sbrodolarsi il mento. La sua lingua era inutile e ingombrante, non riusciva nemmeno a muoverla.

Il tempo perdeva di significato in quello stato catatonico. Il ragazzo non riusciva a formulare un singolo pensiero coerente, perché, non appena la sua mente riusciva a mettere due parole insieme, si slegavano subito dopo, dissolvendosi nel fumo dei sedativi.

Una luce lo accecò. Abbassò le palpebre, mentre avvertiva dei rumori attorno a sé. Erano molto lontani, un'eco che gli arrivava attraverso uno spesso muro di nebbia.

Un po' alla volta Jack galleggiò verso il mondo reale, scendendo dallo scivolo delle medicine, e cominciò a battere le palpebre con maggiore frequenza, respirando più a fondo.

Riuscì a deglutire e mise a fuoco una figura davanti a lui. Si trattava del Migliore con cui aveva parlato il giorno precedente. Ma era davvero il giorno precedente? Jack era così confuso. Si sentiva come se la sua mente fosse prigioniera di un pensiero circolare, che tornava a ripiegarsi su se stesso, senza portare ad alcuna soluzione.

- No, non è il primo giorno che sei qui, Jack – mormorò Valentino, con un sorriso. Una donnina piccola e magra, finora rimasta in un angolo con le mani in grembo, si avvicinò e gli tolse la mascherina. L'uomo inspirò a fondo, emettendo un suono sgradevole, come se l'aria grattasse lungo i suoi polmoni. Ma, se stava soffrendo, non lo diede a vedere. I suoi occhi neri erano due pozzi inespressivi, in cui era facile perdersi. Talmente profondi da sembrare piatti.– E' già da due settimane che stiamo chiacchierando. Però non mi dici mai niente di interessante e stai sprecando il mio tempo. Come potrai immaginare, non sono una persona che ama perderne, e immagino tu condivida il mio punto di vista. La vita è preziosa, e tu sei molto giovane. Sarebbe un peccato trascorrerla qui fino alla fine dei tuoi giorni, non credi?

Jack deglutì a fatica. Non ricordava assolutamente nulla delle ultime settimane. Avrebbe potuto trovarsi lì da pochi secondi, per quello che ne sapeva.

Il ragazzo cercò di parlare, ma aveva le labbra ancora troppo intorpidite per riuscirci.

- Oh, no, no – mormorò il Migliore, scuotendo la testa. – Non si può parlare, qui. Solo io posso. E poi sono in grado di capirti senza avere bisogno di sentire la tua vocetta. Non vorrei mai che cercassi di mettere strane idee in testa alla nostra amichetta qui. Voi vi conoscete, non è vero? Siete sempre lì a guardarvi con due occhi sgranati. "Aiuto, aiuto", sembra che cerchi di dirle. Ma nessuno ti aiuterà. Qui sono tutti sotto il mio controllo, nessuno mi disubbidisce. Nessuno ha una volontà, se non io. Dunque, perché non mi dici qualcosa del Progetto Eden?

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