5. Ricerche

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Il collega sollevò il camice ospedaliero e mostrò una grossa pezza dove pochi giorni prima c'era la milza.

«Si può vivere anche senza» sospirò, lucido nonostante gli antidolorifici che "pulsavano nelle vene", per dirla con una vecchia canzone, attraverso il deflussore attaccato alla sacca per la fleboclisi. «Non sentirti troppo in colpa, nessuno può prevedere queste cose.» Aggiunse: «Dio benedica la flebo!».

L'allegria del collega non sembrava derivargli dalle sostanze chimiche e Thomas si sentì a suo agio. Si risedette sulla sedia dopo aver dato un'occhiata alla ferita, che avrebbe dovuto essere sua e non lo era per un fortunato scambio. Lui portava ancora un pallido segno rossastro nello stesso punto.

«Ricordo tutto, ero cosciente quando mi hanno rappezzato alla bell'e meglio sulla lettiga. Vedevo il manico del coltello ancora conficcato, anche se non lo sentivo. L'adrenalina è una cosa meravigliosa, in certi casi. Prima non credevo ai racconti di quelli che avevano barre di metallo conficcate in testa e andavano al pronto soccorso sulle loro gambe. Merda, adesso ho fugato il dubbio. Le cose che, paradossalmente, dovrebbero ammazzarti subito non lo fanno. Sono le complicazioni che vengono dopo a finirti.» Una pausa. «Dannate complicazioni, prego tutti i giorni che non tocchino a me.» E toccò con i polpastrelli la sbarra di acciaio del letto.

«Ti senti bene? Anche se sei uscito dalla rianimazione e hanno acconsentito alle visite, non è detto che...»

La mano toccò di nuovo l'acciaio delle sbarre. «Per favore non dirlo, nessuna iattura. Gli italiani sono superstiziosi, te l'ho detto un centinaio di volte.»

Thomas sorrise. Nella stanza erano stati sistemati gli auguri di pronta guarigione – un cartello portato dalla compagna del collega – e moltissimi fiori che sprigionavano afrori al limite del nauseabondo. Odori molto diversi dalla nota floreale e mielata che pervadeva a soffi irregolari le stanze del suo appartamento.

«E tu cosa mi dici? Cos'è successo la mattina dell'incidente? Per un attimo ho pensato – lo giuro su Dio, solo un istante,» disse il collega segnandosi con una croce «che sapessi cosa sarebbe successo. Mi avevi detto dei danni alla macchina, di quel tizio della banda e delle sue minacce, di come ti aveva provocato infilandosi una bottiglia di liquore nelle mutande.»

«Infatti. Avrebbero dovuto accoltellare me.»

«Non dire cazzate. Volevano darci una lezione e non hanno guardato la faccia. Sappiamo quali sono i rischi del mestiere. L'unica pecca è che se spari e li becchi, o reagisci e li mandi in ospedale, devi avvalorare la legittima difesa con un mucchio di testimoni scocciati e impauriti di comparire in tribunale, e un giudice che non distingue la realtà della violenza dal patetismo. Lasciamo perdere. Raccontami cos'è successo. Sarai stanco di sentire la stessa versione dei fatti.»

Thomas ammise che le versioni che aveva ascoltato riconducevano alla medesima azione. Gli assalitori erano cinque, entrati armati, mascherati e decisi a trovare la guardia; adocchiata mentre si aggirava nei pressi delle casse, uno di loro aveva estratto il coltello e l'aveva brandito per minacciare. John DiGregorio aveva cercato di non esacerbare la situazione; nel discorrere in relativa calma, un membro della banda gli si era appressato da dietro e, approfittando della pessima abitudine della guardia di togliersi il giubbotto antiproiettile perché scomodo, gli aveva infilato la lama nella soffice umidità della milza scheggiandogli una costola.

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