Castigo, sempiterno

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È vivida l'immagine di quelle inferriate, così imponenti davanti al mio corpo fragile. Lo sguardo cadeva sempre oltre. Sulla strada deserta. Sulla speranza persa. Sulla coda cremisi di un gatto persiano. Incollavo le dita al cancello, mi sporcavo le mani di ruggine, le pulivo sui pantaloni e poi le avvicinavo alla bocca. Ci alitavo sopra per scaldarle come mi aveva insegnato nonna. Faceva freddo quel giorno, mi tenevano compagnia soltanto le parole tanto dolci quanto false di mia madre e i fiori secchi del giardino. Mi piegavo sulle ginocchia davanti ai petali bruciati e li rassicuravo strappando le foglie. Promettevo loro che sarebbero diventati molto più belli, finito l'inverno. Riuscivo a vedere le lancette dell'orologio in salotto, mi condannavo, premevo il naso sulla finestra e non capivo perchè ci mettessero così tanto. Le parole e i sorrisi, come lame, tagliavano i pensieri. I secondi erano infinitamente lunghi e ad ogni scatto mi cadeva una colpa sulle spalle. Bruciavano quasi più delle sberle.

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