Capitolo 1.

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L'unico rumore udibile erano i miei passi sul tristissimo pavimento verde vomito dell'ospedale.
Era ancora a me ignota la ragione per cui gli ospedali dovevano per forza avere questo colore schifoso, non potevano essere colorati e belli? Dovevano per forza essere brutti?
Se un ospedale fosse stato bello non lo avrebbero aperto a prescindere?

La cosa più brutta di stare in ospedale di sabato pomeriggio è il doversi trascinare dietro la stampella con le ruote per le flebo.
Oh e ovviamente avere un ago conficcato nelle vene.

Sono passate 20 settimane da quando ho scoperto di avere quel simpaticone di un cancro e non ho fatto altro che vivere in ospedale, sto a casa solo quando riesco a convincere i miei genitori, dicono che prima iniziamo il trattamento, prima le cose si sistemeranno.
Vomito sangue almeno due volte al giorno e ho dolori ovunque.

Controllo l'orologio del mio cellulare.
Tra 220 secondi avrò finito il mio trattamento giornaliero.

Visito il reparto neonati almeno tre volte al giorno, per i pazienti è possibile vedere i bambini a ogni ora, per i pazienti poco cordiali, impazienti e manipolatori come me è possibile entrare nella stanzetta dei bambini quando più desidero.

Mi prude proprio il punto in cui l'ago si collega con la mia pelle ma non posso fare altro se non chiudere gli occhi e sopportare.

Conto ogni singolo secondo mancante e inizio a dirigermi verso la mia stanza con passi lenti, tanto per far scorrere più velocemente il tempo.
Premo il pulsante per chiamare l'ascensore e diventa immediatamente rosso.
Alzo lo sguardo verso i numeri che vanno a diminuire fino ad arrivare al tre, ovvero il piano maternità, dove sono adesso.

Entro con qualche problema a causa delle fottutissime rotelle della stampella per le flebo e quando riesco ad entrare premo il numero 7, oncologia, il mio adorato piano.

129 secondi.

Nella parete destra dell'ascensore c'è un adesivo con delle onde disegnate e la scritta "make a wave".
Ripensare al mare smuoveva qualcosa dentro me, mi mancava tanto l'aria salina e la sabbia e il sole e il caldo e tutto.
È il 30 giugno e io non ho nemmeno notato lo sbalzo di temperatura a causa dell'aria condizionata dell'ospedale.
Mia madre e mio padre sono quasi sempre qui ma quando vanno via li vedo tornare con pantaloncini e canottiera, ogni giorno sempre più abbronzati.

Le ante automatiche dell'ascensore si spalancano e io mi trascino la flebo dietro.

Sono arriva a 89.

Mi incammino verso la mia stanza e vedo dalla porta opaca la gente appostata fuori, sono quasi le sei, l'orario delle visite.
Giro l'angolo e cammino verso la mia camera.

Osservo ogni stanza con la porta aperta, nonostante mia madre mi abbia detto svariate volte che non posso farlo, che non è educato.

Vedo una donna mangiare del brodo e mi vengono i brividi al solo pensiero, ricordo quanto schifo faccia.
In un'altra stanza ci sono tre bambini che giocano per terra con dei trenini, due di loro hanno i capelli.
Nell'ultima stanza vedo due ragazzi baciarsi, il ragazzo disteso sul letto ha la testa completamente calva e la ragazza gli stringe le mani e lo bacia con delicatezza.
Vengo quasi ipnotizzata da quella scena ma poi mi sento una pervertita e allora faccio ancora due passi fino ad arrivare alla mia stanza.

Camera 755.

Il letto accanto al mio è vuoto, inizialmente una donna lo occupava ma poi un giorno le lenzuola sono state cambiate e la donna non c'era più.
Non so se fosse morta oppure era stata dimessa, era solo scomparsa.

Mi siedo sul mio letto e premo il pulsante accanto alla lampadina per chiamare un'infermiera.
Felicity spunta qualche secondo dopo.

"Tutto bene cara?" Mi chiede reggendosi all'uscio della porta.
Felicity è una ragazza di 23 anni, sta per laurearsi e il suo ragazzo le ha chiesto di sposarlo.
Ha una vita perfetta, praticamente.
Ogni giorno cerco di trovare qualche difetto in lei e l'unico che sono riuscita ad affibbiarle è che la divisa da infermiera le sta decisamente male.

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