Capitolo XI - Rimpianto o rimorso?

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«Eren», mormorò il biondo, sedendosi per terra, privo di forze, «devi smetterla di salvare chiunque, o un giorno di questi ti farai davvero male».
Il castano era stato trascinato contro la sua volontà sul tetto della scuola, costretto a raccontare ad Armin come si era realmente svolta la rissa. Il suo migliore amico, infatti, non aveva creduto a quella storia piena di omissioni, ma comprendeva perché avesse deciso di mentire.
«Vuoi dirmi che tu non ti saresti fermato ad aiutarla?», chiese a quel punto lo Jaeger, leggermente spazientito.
«Certo che l'avrei fatto», continuò, sbuffando.
Ed era vero. Armin non avrebbe mai ignorato qualcuno in difficoltà, neanche se la situazione - come in quel caso - fosse stata pericolosa. Non poteva criticare Eren ma, al tempo stesso, non riusciva a smettere di preoccuparsi per lui.
Lo Jaeger era tutto ciò che lui non era mai riuscito ad essere: forte, coraggioso, divertente, attraente. Lo invidiava sia dal punto di vista fisico, che caratteriale.
Eppure non si era mai permesso di rivelare i suoi pensieri ad alta voce, conoscendo la situazione dell'amico: chi mai avrebbe potuto invidiare un padre violento? O una vita passata in completa solitudine?
A volte, doveva ammetterlo, lo odiava. Ma non in senso negativo, non lo detestava realmente: odiava solo quanto Eren fosse semplicemente 'più' di lui, in tutto, nonostante Armin vivesse una vita decisamente più serena e tranquilla, accerchiato dall'amore della sua famiglia.
Il castano, invece, era come una macchia d'inchiostro su un foglio bianco: l'anima tormentata, ormai corrotta per sempre, nera come il catrame, su uno sfondo a tinta unita. Bianco, puro, innocente, tutte caratteristiche che, ormai, Eren non possedeva più da molto tempo. Ma allora perché sembravano miscelarsi tanto bene?
Armin si sentì la testa leggera, come quando da bambini si urla a pieni polmoni sulle montagne russe. La mente gli si affollò di domande, tanto da provocargli un capogiro.
Perché il castano vagava in quell'oscurità da solo? Perché non lo rendeva partecipe, perché sentiva di non poterlo raggiungere, perché Eren credeva di essere solo al mondo, quando al suo fianco c'era sempre stato lui?
L'Arlert si tenne al corrimano delle scale, in procinto di cadere, colpito dall'intensità e dal peso di quelle domande che non avrebbero mai ottenuto risposta.
"Avrei tanto voluto innamorarmi di te".
Si erano ripetuti quella frase tante di quelle volte da averne perso il conto; eppure, pensava Armin mentre rientrava in classe ed afferrava l'ennesima poesia sul suo banco, era stato meglio così. Altrimenti, avrebbe passato la vita ad inseguirlo.
A cercare di afferrare il fumo.

«"Per il mio cuore" di Pablo Neruda:
Per il mio cuore basta il tuo petto,
per la tua libertà bastano le mie ali.
Dalla mia bocca arriverà fino in cielo
ciò che stava sopito sulla tua anima.
È in te l'illusione di ogni giorno.
Giungi come la rugiada sulle corolle.
Scavi l'orizzonte con la tua assenza.
Eternamente in fuga come l'onda.
Ho detto che cantavi nel vento
come i pini e come gli alberi maestri delle navi.
Come quelli sei alta e taciturna.
E di colpo ti rattristi, come un viaggio.
Accogliente come una vecchia strada.
Ti popolano echi e voci nostalgiche.
Io mi sono svegliato e a volte migrano e fuggono
gli uccelli che dormivano nella tua anima».

Eren ascoltò in silenzio la lettura dell'amico. Da quando Hana aveva confermato i suoi sospetti, non riusciva a pensare ad altro che al ragazzo dal viso equino.
Davvero meritava Armin? Meritava di essere felice insieme a lui, di godersi le sue carezze ed attenzioni?
«Armin, ci vediamo di nuovo sul tetto alla fine delle lezioni? Devo dirti una cosa davvero importante».
Ma in fondo, chi era lui per giudicare?

«Ragazzi, iniziate a studiare fin da adesso per le simulazioni del prossimo mese. È per voi, il vostro futuro e- l'ora è finita, posso smettere di fingere che mi interessi qualcosa della vostra istruzione», disse il professor Ackerman, iniziando a sistemare le sue cose, mentre i suoi studenti uscivano dall'aula, disperdendosi rapidamente.
«Ci vediamo lì, Eren», gli ricordò Armin, uscendo per ultimo dalla classe, lasciandoli soli.
Nessuno dei due osava proferire parola; entrambi erano tormentati da pensieri di diversa natura sull'altro, non potendo pretendere - o ricevere - risposte.
«Jaeger, non raggiungi i tuoi compagni?», chiese improvvisamente Levi, spezzando il silenzio creatosi nell'aula.
Il castano, completamente rosso in viso e preso alla sprovvista, iniziò a balbettare diverse scuse, per poi avviarsi verso la porta.
La sua attenzione, però, venne attirata da un tonfo alle sue spalle: il professore, infatti, nel tentativo di far entrare nuovamente tutti i libri nella valigetta, ne aveva fatti cadere alcuni, spargendoli sul pavimento.
«Ma che cazzo», lo sentì borbottare, trattenendosi dall'usare parole ancor meno piacevoli.
«La aiuto io», disse Eren, apprestandosi a raccoglierli.
Ciò che più sorprese il ragazzo, in quel momento, non fu il fatto di non essere stato ringraziato; non gli importava nemmeno del suo cuore, che batteva furiosamente nel petto, quasi come volesse schizzargli fuori. L'unica cosa a cui riusciva a pensare era la mano del professore che, mentre lui era inginocchiato per raccogliere i libri, era scesa fino ad toccargli le punte dei capelli, sfiorandogli dolcemente la nuca. Il ragazzo rimase immobile, mentre Levi continuava ad analizzare quella ciocca tra le dita, rigirandosela, tirandola leggermente.
Sembrava assorto nei suoi pensieri, come se fosse stato l'istinto a guidarlo in quell'azione suicida; un altro alunno, probabilmente, lo avrebbe già allontanato. Ma Eren covava dentro di sé un sentimento ormai troppo forte per essere sconfitto, di quelli che ti corrodono l'anima ma, al tempo stesso, la tengono unita, compatta, quasi come un collante. Era dal festival scolastico che non si sfioravano così, dato che - in infermeria - il più giovane lo aveva inizialmente scansato, provato dagli avvenimenti.
Deciso a non interrompere quel momento così intimo, il castano rimase in quella posizione, continuando a farsi torturare i capelli da quelle che sembravano mani delicate ma che, in fondo, erano probabilmente esperte e lussuriose.
Quasi come se avesse avvertito le sue intenzioni, Levi si risvegliò dai suoi pensieri, realizzando solo in quel momento ciò che stava facendo.
Ritirò velocemente la mano, come se si fosse scottato col fuoco, per poi posare i libri che il ragazzo gli stava porgendo.
«Ehm... grazie, Jaeger».
Si guardarono negli occhi, stupiti: nessuno dei due si sarebbe aspettato un ringraziamento del genere, nemmeno Levi stesso che, mentre usciva dall'aula - come se stesse fuggendo -, era arrossito leggermente.
«"Grazie, Jaeger", ma che cazzo mi è preso?», si chiese, canzonandosi, nel più completo imbarazzo. Non solo gli aveva toccato i capelli, quasi istintivamente, ma lo aveva anche ringraziato.
«Avrò la febbre», si disse, mettendo in moto l'auto, «se no non si spiega».

Se solo tu mi amassi || Ereri 〜 Riren #Wattys2019Where stories live. Discover now