Capitolo 15.

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Cesare rientrò a casa esausto.
Chiuse la porta alle spalle e sospirò, guardando la cucina ancora in disordine da quella mattina.

Appoggiò la ventiquattro ore sul piccolo tavolino in mogano all'ingresso e si avviò al banco cucina.
Prese la padella, sporca di uova strapazzate fatte quella mattina per colazione, e la mise nel lavandino, aprendo l'acqua.
Poi prese il piatto e le posate dal tavolo e iniziò a lavarli con la spugnetta verde che aveva a portata di mano, con foga.

Li lavò mettendoci rabbia nei movimenti, facendo defluire il nervoso, la frustrazione e le ingiustizie attraverso le mani.

Poi sbuffò, le maniche dell'abito di Gucci bagnate, sciacquò i due piatti e buttò la spugna nel lavandino.
Si mise la mano destra sul viso, bagnandosi la fronte con l'acqua rimasta dal lavaggio dei piatti.

Poi, scattò.

Si tolse la giacca, la camicia, i pantaloni e li buttò sul letto; non lo calmò neanche la vista su Central Park quell'ora di sera.
Si mise dei pantaloncini neri della tuta che aveva nell'armadio e andò nella stanza alla destra della sua camera da letto, in palestra.

Iniziò a sollevare pesi, a correre sul tapis roulant e a prendere a pugni il sacco da boxe.

Non si fermò un attimo, il sudore che gli illuminava il viso e il petto, la mente che piano piano si svuotava, il dolore fisico che lo inebriava e lo allontanava da quello mentale.

Tirò un ultimo pugno al sacco da boxe e poi si buttò a terra, il respiro corto, il petto che si alzava e abbassava velocemente, i capelli fradici per il sudore.

Rimase lì, sdraiato sul pavimento per quelli che gli parvero minuti ma anche ore, poi, finalmente vuoto, si alzò.

Camminò senza meta, senza neanche ricordare chi fosse, arrivando infine in salotto.

Lì si trovò ad accarezzare il pianoforte a coda che aveva comprato qualche anno prima; si sedette e iniziò a suonare.

A pensarci non fu lui a suonare; le sue dita si mossero da sole tornando ad una delle canzoni che più aveva provato quando da piccolo era stato costretto ad imparare a suonare il piano: "Für Elise", "Per Elisa" di Bethoveen.

Ad ogni nota il suo cuore si spaccava, ad ogni nota si rimarginava; amava suonare e lo odiava.
Il pianoforte ed il violino erano per lui come suo padre; lui gli aveva imposto di imparare a suonarli eppure quel suono era arrivato a dargli pace all'anima.

Ma mai avrebbe dimenticato le urla del padre che lo obbligavano, mai le punizioni, mai la sofferenza, nonostante ora quel gesto gli dasse conforto.

Ma in fondo al cuore si sentiva alienato da se stesso perché ormai non sapeva più neanche capire se quella sensazione fosse reale, se il conforto e la pace che provava nel suonare quegli strumenti fosse concreta o l'avesse costruita la sua mente per far tacere il dolore e stare meno male, per proteggersi dalla sofferenza e dagli obblighi imposti dal padre.

Una lacrima scese mentre le sue dita erano ancora intente a premere i vari tasti; a quella ne seguì un'altra e poi un'altra ancora.

Era come se avesse aperto un rubinetto; le lacrime scesero incessanti una in fila all'altra, senza causare in lui un piano sfrenato, come se il suo corpo fosse pronto a lasciarsi andare ma la sua mente no.
Pianse ma il suo viso rimase imperturbabile, le sue dite mai cessarono di suonare, il suo corpo non fu scosso da singhiozzi.

Era una immagine di un paradosso unico, immagine che rappresentava a pieno la scissione delle due parti dello stesso Cesare; un Cesare che voleva poter essere debole ma che non poteva, non più.

Finì la canzone è si asciugò il volto con entrambe le mani, appoggiando i gomiti sui tasti del pianoforte, causando un forte rumore che gli scosse l'animo, bloccando finalmente il flusso incessante di acqua che nasceva dai suoi occhi.

Ai confini del mondo Where stories live. Discover now