Ritardo

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Alex
2031

9:30. No, non andava affatto bene.
Avrebbe dovuto presentarsi alle nove, ma di lei ancora nessuna traccia. E nessun messaggio.

Avevo controllato circa sei volte in quell'ultimo quarto d'ora.

Mi accasciai sulla sedia di fronte alla mia nuova scrivania e venni travolto per la prima volta da un grandissimo senso di disagio.

La sua espressione era persa, vuota. Quando il direttore gli aveva tolto la scrivania, sembrò quasi che il mondo fosse sul punto di precipitarle addosso.

Non sapevo più niente di lei, non da quando...

Non potevo sapere se avesse la retta dell'asilo di un ipotetico figlio da pagare o se dovesse pagare un mutuo.

Non sapevo quanto quei soldi potessero servirle. Ma, in quell'istante, seduto a quella scrivania, mi sentii fuori luogo perché quello non era il mio posto e odiai il presidente per questo.

Serrai la mascella prima di controllare di nuovo l'ora.
9:45.

Sentii la porta di vetro opaco aprirsi di colpo.
"Dove diavolo è?"Il presidente era viola in volto quando si portò una mano alla gola per allentare la cravatta.

"Traffico, signore." Non lo sapevo e non avrei dovuto coprirla.

"Ricordati di avvisarla di arrivare in orario, perché la prossima volta il traffico non varrà come scusa."

"Sì, presidente."

"Ricordati che ruolo hai, White. Adesso lei è un tuo problema." Alzò l'indice nella mia direzione con fare accusatorio, annuii guardandolo.
"Farai bene a ricordarlo quando la licenzierò."

Accennai un inchino con la testa, ma la porta venne chiusa violentemente. Non se ne accorse nemmeno.

Non importava quanto odiassi ammetterlo. Ero pur sempre un suo superiore. Ero io a comandare e l'avrei fatto per non farle perdere il lavoro.

Poteva odiarmi, d'altra parte già lo faceva, ma non potevo permettere che perdesse altro a causa mia.

La cercai tra i contatti e la trovai proprio lì, tra quelli di emergenza. Non ero riuscito a cambiare il nome in rubrica e nemmeno a eliminarla da quella sezione.

Non l'avrebbe mai saputo, però. Non perchè non meritasse di sapere, ma perchè ero io a non meritarla.

Fin da bambino ero stato abituato ad avere tutto ciò che volevo. Non avevo mai atteso niente.
Lo stesso fu con le ragazze al liceo. Con la mia Audi e con i miei maglioni tanto costosi quanto belli.

Con Lily non poteva essere diverso.

L'avevo vista e la volevo. La volevo più di quanto mi fosse lecito volerla.

Quando entrava in ufficio con quei vestitini a fiori, sempre troppo larghi, non riuscivo a non immaginare che forme nascondesse sotto quella stoffa.

I capelli erano sempre corti e mi facevano impazzire perché le mettevano in risalto il collo, lo stesso di cui non mi sarei mai saziato.

C'era stato un momento in cui tutte queste cose, insieme ai suoi sorrisi e la sua personalità, mi erano bastate. Credevo davvero che potesse cambiarmi, ma la verità era un'altra e io la sapevo bene.

O almeno, credevo di saperla perchè quando i suoi occhi si riempirono di lacrime, il giorno in cui mi trovò avvinghiato alla nuova stagista, il mio cuore perse un battito per il peso di quel senso di colpa.

Credevo di volere la libertà. Credevo di voler passare oltre. Invece riuscii soltanto a scavarmi la fossa dentro a quel cuore che io stesso avevo distrutto.

Non provai nemmeno a giustificarmi.

Non avrei detto niente che l'avrebbe fatta sentire meglio e, comunque, non volevo farlo.

Bastava guardarla per accorgersi che meritasse meglio.

Ecco perché quando uscì da quello che una volta era il nostro ufficio, la lasciai andare e io, dopo essermi ricomposto, andai dal presidente per trattare il trasferimento.

Lei pensò che l'avessi abbandonata senza una valida spiegazione, ma in realtà la spiegazione io non ce l'avevo.

Ero da sempre abituato ad avere tutto, e una volta ottenuto, lo rompevo per passare al nuovo.

I giorni passarono, così come i mesi e quella piccoletta continuava a tornarmi in mente. Dapprima quando mangiavo e quando mi allenavo, poi quando facevo l'amore.

Capii di essere fottuto quando smisi farlo, ma mai di pensarla.

Ai baci rubati in ufficio, agli occhi dolci quando mi coccolava sul divano e al suo corpo premuto contro il mio ogni volta in cui urlavo il suo nome.

Non riuscivo a smettere di pensarci, ma non potevo farci niente.

Chi è causa del suo mal, pianga se stesso ed è esattamente quello che feci.

Sparii dalla sua vita e anche dalla mia.
Fin quando fui costretto a tornare in azienda dal presidente per, ironia della sorte, rubarle di nuovo quella vita. La stessa che era riuscita a ricostruire in quei dannati cinque anni.

Scivolai di nuovo nel buco che avevo nel petto quando i suoi occhi si gonfiarono di lacrime il giorno prima, in quel locale.

"Non voglio sentirti."
"Non ti voglio vicino"

Feci un respiro profondo prima di premere il pulsante per chiamarla. Uno squillo, due squilli.
Segreteria telefonica.

"Dannazione."
Non ero certo di cosa sarebbe successo. Sapevo soltanto che avremmo avuto dei problemi se avesse continuato a ignorarmi.

Dovevo fare qualcosa. E dovevo farlo in fretta.

Chiusi gli occhi per un istante perché rimediare non sarebbe stato tanto semplice.

Lilies & OTICH• Ben BarnesΌπου ζουν οι ιστορίες. Ανακάλυψε τώρα