5 - THE 𝑅𝐸𝐶𝑇𝑂𝑅'S SPEECH (p.1/2)

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Al terzo piano dei dormitori dell'ala Est dell'Accademia, costretta in fondo al corridoio più lungo dell'edificio, c'era una porta. Era massiccia, d'ebano. L'intaglio era lugubre. Incuteva raccapricciante terrore e paralizzante angoscia: molti raccontavano di accusare un brivido agghiacciante che solcava loro la pelle appena imboccato il cunicolo, alcuni dicevano di aver sofferto di sogni truculenti per settimane dopo una sola occhiata, altri ancora affermavano d'avvertire ombre morte perseguitarli quando erano soli, nella semioscurità dei loro alloggi.

Era la porta della stanza 113: la più bella e ampia dell'accademia. E Lord Joshua Nathaniel Lars l'aveva scelta di persona.

Per scovarla, il primo giorno del primo anno da fresco Iskra quattordicenne, aveva vagato con l'entusiasta Rettrice Moukarbel al seguito. Gli era parso d'essere il padrone di un cagnolino sovraeccitato, scodinzolante e con la lingua umidiccia; l'aveva giudicata una donna squallida, ma fruttevole. Perché adorava il suo alloggio: dalle pareti rosse e i mobili scuri, ai suoi tre piani; dal letto in mogano, ai quadri che aveva selezionato di persona; dal camino su cui svettava la testa impagliata della prima cerva colpita alla sua prima battuta di caccia, alla sua vasca del tutto simile a una piscina. Sì, l'amava... quanto detestava il suo coinquilino.

Ora, mentre abbottonava gemelli ai polsini della camicia davanti allo specchio del salotto, lo osservava correre a destra e manca come un forsennato. O uno struzzo. Sì, da come muoveva la testa bionda, avanti e indietro e su e giù, sembrava proprio uno struzzo.

Patetico, pensava con amarezza.

Così lo aveva soprannominato: il patetico. Si disinteressò. Distolse lo sguardo da quello spettacolo indegno per un Privilegiato, finché non lo scoprì apprestarsi alla sua libreria d'epoca – anch'essa d'ebano, appartenuta a Lord Leonard Itea Raptis e contente le preziosissime prime edizioni de "Le ossa degli Zivel" e "La verità degli Aveyard Clare" – con la coda dell'occhio.

Si allarmò, a mascella contratta. «Cosa stai facendo?»

«Cerco... una cosa.» rispose il Patetico. Non si fermò. Non lo guardò. Continuò a trafficare coi soprammobili armato dalla delicatezza di un selvaggio.

Accompagnato dalle sopracciglia corrucciate, l'odio di Josh schizzò alle stelle perché quelli che il patetico stava maneggiando con avventatezza non erano semplici oggettini su una mensola: erano cimeli.

La vecchia ciotolina rossiccia che quasi rovesciò era un'antica lucerna a olio con coperchio di metallo decorato; era un ricordo dei primordi della sua famiglia, antecedente al Conflitto.

Il sasso azzurrognolo che spostò con noncuranza era uno dei minerali più rari esistenti nel Principato, chiamato "l'Occhio dei Wizja" giacché il cuore della pietra era una pupilla sulfurea che si ramificava alla stregua delle pagliuzze di un'enorme iride; il suo valore era addirittura impronunciabile.

L'ovvietà in persona, fu cinico e in un riso nervoso, chiamò il suo Asservito: DH5583.

Questo, abbigliato con la divisa rossa dal colletto blu, si avvicinò col suo solito passo: deferente, impettito e a mani legate dietro la schiena. Aveva trentacinque anni e tutto in lui era scialbo: i capelli neri erano mitigati da canizie precoci; gli occhietti verdognoli non erano abbastanza luminosi; il naso non era né dritto né aquilino; le labbra, sottili, erano strette in un mezzo arricciamento; non era né basso, né alto; non era né magro, né robusto. Il suo unico eccesso era riservato alle orecchie, belle larghe.

Dopo tre anni di servizio, Josh aveva maturato una naturale fiducia; non gli dispiaceva.

«Ho bisogno del tuo intervento.» gli disse a labbra stirate.

L'Accademia dei Privilegiati di HemeraWhere stories live. Discover now