-6. Sono stata io -

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23 febbraio
Ethel uscì di casa velocemente, non salutò nemmeno sua madre e i gemelli. Aveva troppi pensieri per la testa per ricordarsi di essere educata. Albert le aveva chiesto di incontrarlo e lei non era riuscita a dirgli di no per l’ennesima volta. Si sentiva in colpa ogni volta che rifiutava le sue attenzioni, lui non le aveva fatto nulla di male, ma lei non poteva lasciare che le si avvicinasse troppo, o lo avrebbe trascinato nel suo oblio, come aveva fatto con Evan.
Ripensò a quella sera, la notte in cui la sua stupidità aveva condannato un ragazzo. Perché lei lo sapeva, sapeva che Evan non c’era più. Per quanto tutti fossero convinti fosse fuggito dalle sue responsabilità di padre, o per paura di essere arrestato, Ethel sapeva che lui era sepolto lì ad Heston, sotto i loro piedi.
Aveva accettato di andare a quella maledetta festa, sapendo che le sarebbe bastato poco per combinare un disastro, visto lo stato mentale in cui si trovava.

31 ottobre
Albert sorrise quando la vide entrare nella sala. La festa era già cominciata da un po’, e probabilmente il ragazzo aveva perso le speranze. Ma Ethel era solita mantenere le sue promesse. Si avvicinò a lui e iniziò a complimentarsi per il suo costume. Evidentemente Albert prendeva molto seriamente Halloween, sembrava aver lavorato per mesi su quella mummia faraonica, non come lei, che riciclava il vestito da Capitan Uncino ormai da anni.
Presto venne raggiunta da Rebecca, che era così felice di vederla lì, da ignorare i suoi spasimanti bavosi. Effettivamente era da quasi un mese che Ethel evitava tutti, le sue migliori amiche comprese. Doveva ancora trovare il modo di affrontare ciò che le stava accadendo e per farlo aveva bisogno di silenzio e solitudine. Aveva accettato di andare quella sera solo per non deludere Albert e per non farli preoccupare troppo. Era cambiata talmente in fretta da aver attirato le attenzioni dei suoi compagni, i quali non smettevano di farle domande a cui non voleva rispondere.
“Divertiti” si ripeteva a mente. Aveva bisogno di distrarsi, per una notte sarebbe potuta tornare la Ethel di sempre, quella che ballava per ore sui tacchi, quella che flirtava con tutti, quella che batteva chiunque a beerpong, o almeno ci avrebbe provato.
Tra uno shot e l’altro le ore passavano in fretta e la festa proseguiva, sebbene molti invitati fossero accasciati a terra. Anche Ethel iniziava ad accusare i primi sintomi della sbronza, improvvisamente l'energia di cui era stata pervasa fino a quel momento, l'aveva abbandonata e ora faceva estremamente fatica a reggersi in piedi. La testa le si era fatta pesante e le gambe le tremavano. Non riusciva nemmeno a mantenersi in equilibrio, e prima di riuscire ad arrivare a sedersi, era caduta numerose volte, reggendosi su sconosciuti per rialzarsi.
Era riuscita a non pensare fino a quel momento, ma una volta sola su quei divanetti la sua mente era stata pervasa dai ricordi. Un paio di mani viscide che correvano lungo il suo corpo, un ghigno spaventoso e rivoltante, le sue urla strozzate e quel sapore di sangue in bocca che non la abbandonava mai.
Quando quelle immagini divennero insopportabili, decise di uscire, come se abbandonare quella stanza che puzzava di fumo, vodka e vomito, potesse aiutarla a fuggire da quella situazione. Iniziò a vagare per il giardino, senza una meta definita, lasciando che l’aria gelida le invadesse i polmoni.
Passò affianco ad un albero, sperando di potersi nascondere dietro ad esso, ma girandoci attorno notò Francois e Ivy, restò a guardarli confusa per qualche secondo. Lui cercava di abbracciarla mentre lei continuava a divincolarsi e a togliersi il mantello che egli le aveva dato, nonostante fuori non dovessero esserci più di dieci gradi.
Non si intromise e si allontanò dall'improbabile coppia, recandosi nel giardino sul retro, dove sperava di non trovare nessuno che potesse disturbarla. Si sedette su una delle panchine di legno bianco e, senza nemmeno rendersene conto, iniziò a vomitare sul prato. Nella sua testa era il caos, non riusciva a capire cosa stesse succedendo, e tutto attorno a lei girava vorticosamente. Sentì qualcuno correrle incontro e prenderle i capelli tra le mani.
Non appena smise di rigurgitare, sollevò la testa e si gettò sul suo soccorritore, Evan. Iniziò a piangere senza riuscire a controllarsi, era troppo ubriaca per farlo. Iniziò quindi a parlare, a dire tutto ciò che pensava, senza fermarsi. "Non ce la faccio più." Mugugnava "Non riesco più a vivere in questo modo... voglio morire." Evan la allontanò da sé sconvolto e tenendola per le spalle, iniziò ad interrogarla. "Che stai dicendo Ethel? Che hai?" Lei scosse la testa sconsolata. "Non posso dirti nulla, Evan, l'ho promesso."
Quel poco di lucidità che le era rimasto cercava di ricordarle le conseguenze di una sua confessione, ma le insistenze di Evan rendevano veramente difficile tacere.
"A chi Ethel? A chi lo hai promesso?"  Le mani del ragazzo le afferrarono con forza il volto. Chiuse gli occhi, abbandonandosi a quel calore. Evan era uno dei suoi migliori amici, da sempre, sapeva che non avrebbe lasciato perdere. Gli afferrò i polsi graffiandolo, tentando di fargli mollare la presa, di cacciarlo. Ma lui le prese il braccio sinistro, tirandolo verso di sé e alzando la manica fino al gomito.
Sotto la camicia scoprì centinaia di cicatrici più o meno superficiali, segni orribili che le ricoprivano gran parte dell'avambraccio, alcuni non ancora completamente cicatrizzati e coperti alla meglio con dei cerotti. Ethel si ritrasse e lo fissò terrorizzata. “Dovevi coprirli meglio” si rimproverò mentalmente.
"Dimmi subito cosa ti sta succedendo." Il tono di Evan era grave e serio, non sapeva come uscire da quella situazione, quindi decise di accontentarlo. "Ti dirò tutto, ma tu..." Riprese a piangere incontrollatamente, chinandosi in avanti e appoggiando la testa sul petto del suo amico. Sapeva che coinvolgerlo non sarebbe stata una buona idea, che certamente avrebbe cercato di convincerla a parlarne con la polizia o a dirlo alla sua famiglia, ma lei non voleva in alcun modo che la sua storia fosse resa nota, non mentre era in vita almeno. "...tu promettimi che non dirai niente a nessuno... non parlerai con mia madre e non lo dirai nemmeno a Clarissa o ad Albert." Evan annuì porgendole il mignolo, come era solito fare quando stava per stringere un patto. La ragazza prese un respiro profondo e chiuse gli occhi, pronta a raccontare il suo inferno.

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