-17. Fuochi d'artificio -

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1 gennaio
La mezzanotte era giunta in fretta. Quando era sola con Albert il tempo aveva tutta un’altra consistenza. Al nascere dell'anno nuovo, lo spettacolo iniziò: migliaia di luci colorate illuminavano il cielo di Heston. Ethel guardava verso l'alto, con il volto sereno, sentendosi completamente in pace col mondo come non le accadeva da tano, troppo ormai. Sentiva che lui spesso distoglieva gli occhi da quello spettacolo di polvere infuocata, per ammirarla. Nel buio, la mano del ragazzo, sfiorò timidamente la sua. Non si voltò, non subito, mosse leggermente il mignolo ricambiando quel contatto incerto. Lentamente, lui si avvicinò e senza dirsi una parola le loro dita si incrociarono con passione. Ethel sentiva il cuore batterle talmente tanto forte che temeva le sarebbe uscito dal petto.
Improvvisamente la sua mente venne annebbiata da mille pensieri negativi. Poteva pensare di iniziare una relazione, con tutto ciò che stava passando? Non avrebbe rischiato di coinvolgere anche lui in quella merda? Non poteva farlo, non poteva fargli questo. Lei aveva troppi problemi per poter essere felice con qualcuno. Avrebbe certamente rovinato anche la vita di Albert e non ne aveva assolutamente intenzione. Ma complici l'alcool e la gioia che quello spettacolo pirotecnico le trasmetteva, decise che almeno per quella sera non si sarebbe lasciata influenzare da ciò che le era accaduto e dalle sue paranoie. Voleva divertirsi, ridere, fare nuove esperienze, vivere. Tornare per una notte, la Ethel che era sempre stata.
"Posso?" Albert esitò, prima di avvicinarsi alle labbra di Ethel. Lei annuì, ma aveva paura. Non si era mai sentita in quel modo, le mani le tremavano, anche più delle gambe. Si fermò un secondo. Le loro labbra si stavano praticamente toccando. Si guardarono negli occhi, perdendosi l'uno in quelli dell'altra. "Non devi chiedere." Rispose per poi mordergli dolcemente il labbro inferiore. Albert la strinse e le diede un tenero e lungo bacio, tenendo una mano tra i suoi ricci indomabili.
La sensazione che provò era incomparabile a qualsiasi altra mai sperimentata. Forse queste emozioni erano amplificate dall'alcool e dall'atmosfera che si era formata attorno a loro, non riusciva a capirlo, ma era ciò che di più bello avesse mai sentito fino a quel momento. Avvertiva come un formicolio che partiva dallo stomaco e solleticava il cuore, il quale accelerava il suo ritmo, cercando di sincronizzarsi con quello di Albert. Dopo poco le loro bocche si divisero e a fondersi, furono i loro sguardi. La ragazza non riusciva a non guardare quegli splendidi occhi azzurri, così profondi, così magnetici. L'avevano colpita fin dal primo giorno e non era più riuscita a farli uscire dalla sua mente. Più i due si guardavano, meno riuscivano a capire cosa stesse succedendo. Non potevano ritenersi abili nel riconoscere l'amore, non essendo molto esperti in materia. Ethel sorrise, amaramente, ricordandosi improvvisamente quanto fosse complicata la sua vita in quel momento, si voltò dall'altra parte affacciandosi alla terrazza e sospirò malinconica.
Albert l'abbracciò da dietro: "Non preoccuparti." Bisbigliò. "Non voglio sapere niente del tuo passato, se non vuoi dirmelo, non mi importa. Voglio solo poterti stare vicino più spesso." Ethel tornò a fissarlo, sorridendo, anche se una lacrima era comparsa sulla sua guancia.
Le prese il viso tra le mani e la baciò un'ultima volta. "Se non ti senti pronta, va bene, possiamo lasciare tutto questo qui, su questo balcone." Lei annuì e gli sorrise. Era la persona migliore che avesse mai incontrato. Nel frattempo il cielo aveva smesso di brillare, e anche la gioia della ragazza si era spenta. Da lì riuscì a scorgere Evan. Sperava che lui si fosse dimenticato della confessione che gli aveva fatto alla festa di Rebecca, o che si fosse rassegnato alla sua impotenza, ma evidentemente non era così.
“Vedrai che fine farà il tuo amico se non la smette di impicciarsi.” Quella frase, breve e tremenda riecheggiava nella sua mente ormai da giorni. Evan aveva infranto la loro promessa, tentando di risolvere la situazione in chissà quale modo. Lui non aveva voluto spiegarle come il ragazzo aveva cercato di intervenire, ma sapeva che se non avesse lasciato perdere, la cosa non si sarebbe chiusa bene.
Sapeva di cosa fosse capace quel mostro, era cosciente del fatto che non avesse alcuno scrupolo. Con tutto il male che le aveva fatto, cosa gli avrebbe impedito di farne anche ad Evan?
“Che cazzo stai facendo?” La voce di Francois squarciò i suoi pensieri, e sia lei che Albert si affacciarono preoccupati. Nel cortile Andrey e il francese litigavano, Ivy stava in mezzo a loro, cercando invano di calmare quelle due anime furenti. “Non si può mai stare tranquilli.” Commentò Albert scocciato e preoccupato per la sua migliore amica. “Andiamo a vedere che sta succedendo?” Le chiese sperando di distrarla dai suoi pensieri.
“Tu vai, ti raggiungo subito.” Lo vide sparire dietro la porta, per poi ricomparire nel giardino quando ormai Andrey era già andato via. Lo guardò mentre abbracciava Ivy, la quale era scoppiata in lacrime. Albert era proprio un angelo, se non avesse avuto paura di trascinarlo nel suo baratro, gli avrebbe certamente chiesto di salvarla. Forse era l’unico a poterlo fare, a poterla aiutare a sorridere nonostante tutto.
Nel frattempo Evan, agile come una gazzella, scavalcò la staccionata e corse dietro ad Andrey. Istintivamente Ethel si allarmò, razionalmente la cosa più logica da pensare era che Evan volesse semplicemente rimproverare Andrey per il suo comportamento, ma lei sentì un brivido congelarle la spina dorsale. Quello era il preludio di una tragedia.
6 marzo
Ethel ripensò a quella scena. Se solo avesse capto prima quali fossero le intenzioni del suo amico lo avrebbe certamente fermato. Che assurdità, pesare di pagarlo perché se ne andasse, perché la lasciasse in pace. Non avrebbe mai funzionato, ma Evan aveva voluto tentare lo stesso. Aveva rischiato e perso tutto solo per lei. “Ecco perché le persone egoiste vivono di più.” Pensò togliendosi la maglia.
Non aveva intenzione di andare al funerale, non avrebbe retto, anche perché lui sarebbe stato lì a fissarla, a controllare che stesse in silenzio, che nascondesse le sue ferite come aveva fatto in quegli ultimi mesi. Non credeva che Evan si sarebbe offeso per questo, in fondo, lo avrebbe raggiunto presto.
Restò in intimo e guardò attentamente il riflesso sul grande specchio del bagno. Il suo volto si contorse in una smorfia di disgusto. Come faceva lui a trovarla ancora attraente? Poteva capire le prime volte, quando ancora era bella, ma perché continuare anche dopo le trasformazioni che il suo corpo aveva subito? Cosa c’era di sexy in quell’ammasso di ossa e pelle sfregiata?
Era divenuta così magra che le si potevano contare le costole e le vertebre. Sentiva un senso di nausea che la assaliva ogni volta che restava senza veli, guardarsi era diventata una tortura peggiore di quelle che lui le infliggeva. Si riteneva mostruosa, abominevole, uno scheletro che camminava. Per non parlare dei tagli che le costellavano le braccia, il ventre e le gambe, e dei lividi che si trovavano sparsi su tutto ciò che avrebbe potuto coprire. Perché lui era furbo, non la colpiva mai in faccia, né le lasciava graffi sul collo o sul petto. No, tutti i segni che le procurava erano sulla schiena, sulle cosce e dovunque potessero essere nascosti.
Un morso violaceo troneggiava sulla sua natica destra, a riprova del fatto che lei fosse sua e sua soltanto. Non l’avrebbe mai lasciata andare, mai. Non importava quanti soldi Evan gli avesse promesso, nessuna cifra sarebbe bastata. L’ossessione che aveva per lei era troppo profonda, e l’unico modo che Ethel aveva per scappare da lui era quello: lasciare quel mondo crudele, che non aveva fatto altro che sputarle in viso negli ultimi sei mesi.
Aprì l’acqua, lasciando che la sua vasca si riempisse. Nel frattempo prese il diario che aveva finalmente terminato di scrivere. Aveva deciso di lasciare a quelle pagine il compito di raccontare la verità. Lei a parole non ne sarebbe mai stata in grado, a parer suo non esisteva nulla di più umiliante e pietoso che trovarsi in una situazione come la sua. Si era sempre ritenuta responsabile di ciò che le era accaduto e preferiva soffrire in silenzio piuttosto che sopportare gli sguardi di biasimo che la gente le avrebbe rivolto. In fondo aveva deciso di incontrarlo spontaneamente, e non era stata in grado di difendersi o ribellarsi, né la prima volta, né tanto meno le seguenti.
Raccontare quel fatto, sarebbe stato per lei come ammettere la sua stupidità e ingenuità, la sua patetica impotenza. Molti si sarebbero chiesti perché non ne avesse parlato con qualcuno, perché avesse permesso che quella cosa succedesse così tante volte. Avrebbero pensato che, in fondo, le piacesse. E poi Ethel indossava sempre abiti attillati, maglie scollate e gonne corte. Le piaceva fare la civetta con i ragazzi. Era stata lei a provocare quella reazione, era stata lei a comportarsi in modo equivoco, era colpa sua.
Aveva convissuto con quella consapevolezza per mesi e non era nemmeno la parte peggiore. La vergogna per non essere riuscita a difendersi, la paura che qualcuno guardandola negli occhi potesse capire, il confronto con il responsabile, il quale, davanti agli altri faceva finta di nulla, ridendole in faccia. Tutto ciò era intollerabile e odioso, si sentiva sporca fino a dentro le ossa, come se ogni parte del corpo che quel mostro le aveva toccato, fosse divenuta marcia poco dopo.
Aveva distrutto tutto, i suoi sogni e le sue aspettative. Sarebbe mai riuscita a mostrare quel corpo sfregiato ad un ragazzo? Sarebbe mai riuscita a farsi abbracciare da qualcuno, senza averne paura? Avrebbe potuto mai fidarsi di chiunque altro? Certamente no, la sua vita era finita quel maledetto pomeriggio.
Aprì l’ultima pagina e scrisse in grande “Perdonatemi.” Si sentiva in colpa, tutto quel disastro era accaduto solo dopo un suo errore. Cominciò a singhiozzare. Se pensava a quanto fosse perfetta la sua vita prima di accettare quello stupido invito… Sarebbe voluta tornare indietro e uscire con Albert e Ivy quel sette ottobre, come tutti i pomeriggi. Andare a casa del ragazzo a studiare e spettegolare con quelli che stavano diventando, in poco tempo, i migliori amici che avesse mai avuto. “Chissà come sarebbe la mia vita adesso…”
Immaginava lei e Albert come una coppia, se non le fosse accaduto nulla, avrebbe sentito i fuochi d’artificio molto prima e non avrebbe avuto alcun motivo per smettere di guardarli brillare. La loro sarebbe stata una storia d’amore travolgente, come quelle contenute nei romanzi, e soprattutto felice. Non sarebbe stata costretta ad allontanarlo e a spezzargli il cuore, ma avrebbe potuto godersi quel paradiso che era riuscita a toccare soltanto per alcuni istanti la notte di capodanno.
Anche il resto sarebbe stato diverso. Evan ancora lì con loro, spensierato e sorridente come era sempre stato, pronto ad accogliere il bambino che Clarissa portava in grembo. Avrebbero potuto finire la scuola in modo sereno, senza dover rispondere a interrogatori e senza vedere i loro amici finire in carcere ingiustamente.
Per questo aveva deciso di farla finita. Ormai per lei ed Evan era tardi, ma per gli altri no. Se fosse rimasta le cose sarebbero potute peggiorare, e magari sarebbe arrivato il turno di Albert o di Ivy, o di chiunque altro avesse cercato di darle una mano. Una volta svanita, Heston sarebbe tornato un posto tranquillo, o almeno questo era ciò che si augurava.
Si spogliò del tutto, dando le spalle alla propria immagine, per risparmiarsi quella vista indegna almeno nel suo ultimo giorno. Entrò lentamente nella vasca, lasciando che il tepore dell’acqua la catturasse, dando sollievo ai suoi brividi. L’acqua era sempre stato il suo elemento, sentiva di appartenerle e per questo aveva preso la decisione di fondersi con lei, di svuotarsi in quel liquido che le aveva sempre trasmesso sicurezza e conforto.
Prima di fare ciò che doveva fare, prese il telefono tra le mani, notando le innumerevoli chiamate perse da parte di Albert. Probabilmente si era preoccupato non vedendola alla funzione. Le ignorò, lasciando che il dispositivo continuasse a vibrare senza sosta. Accese la musica, la loro canzone, decisa a farsi cullare da quelle parole nei suoi ultimi istanti.
“Cause there’s this tune I found
That makes me think of you somehow
And I play it on repeat
Until I fall asleep…”
Sorrise, non c’era modo migliore di addormentarsi, che non sulle note di quel brano.

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