-18. Hallelujah -

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6 marzo
Il funerale stava per iniziare, si sarebbe svolto nella palestra grande della Heston High per contenere più persone possibile, dato che era prevista un’immensa affluenza. Quando Francois arrivò, vide infatti che tutta la città si trovava lì, solo una persona mancava all’appello: la ragazza che Albert stava cercando in modo ossessivo. “Non penso verrà.” Disse indicandogli la madre di Ethel già pronta ad entrare da sola.
Andarono a sedersi in prima fila con i loro compagni di classe. Nonostante l’enorme quantità di presenti, in quel palazzetto, non volava una mosca. In centro ad uno spazio semicircolare troneggiava, circondata da orchidee e gigli candidi, un'elegante bara bianca, con in cima una foto di Evan ancora sorridente e felice. Vedere quell'immagine lo fece rabbrividire e dovette sedersi per evitare di svenire. In alcuni momenti Francois riusciva a non pensarci e a dimenticarsi quell’incubo. Nella sua mente fingeva che niente fosse mai accaduto, che Evan non fosse mai esistito e che quell’orribile tragedia non riguardasse lui. E in quegli istanti stava bene, in quegli istanti riusciva a vivere e a respirare, ma quando rivedeva le immagini del suo migliore amico, mentire a sé stesso diventava impossibile ed era costretto ad accettare la verità.
La cerimonia fu toccante, Francois pronunciò il suo elogio in modo impeccabile, risultando quasi privo di sentimenti, mentre dentro di lui un tornado di disperazione vorticava sconvolgendolo profondamente. Anche se negli ultimi periodi tra lui ed Evan non correva buon sangue, era sempre stato il suo migliore amico e non avrebbe mai smesso di esserlo. Avevano condiviso l’infanzia migliore che potesse anche solo immaginare e non sopportava l’idea di averlo perso così, senza nemmeno sapere il perché.
“Vorrei solo tornare indietro nel tempo e salutarti come si deve, mi dispiace che il nostro ultimo incontro sia stato così silenzioso e ricco di risentimento. Avevo ancora tante cose da dirti, e tanti progetti da realizzare assieme a te. Anche se non te l’ho mai detto con queste parole, sappi che ti voglio bene, e che sarai per sempre mio fratello.”  Sospirò e lasciò il posto agli altri, asciugando velocemente una lacrima che stava per rigargli il viso.
Rebecca e Clarissa salirono sul podio subito dopo di lui e parlarono una alla volta, tenendosi saldamente per mano. Francois guardò attentamente le due ragazze vestite di nero, tanto che quasi non udì una parola di ciò che dissero. Avevano l'aria di due giovani vedove: indossavano corti abiti scuri, quello di Clarissa aveva una gonna ampia mentre Rebecca aveva optato per un elegante tubino e sul capo portavano una sorta di cerchietto, con una veletta nera, che copriva in parte i loro volti tumefatti dalle lacrime. Si facevano forza a vicenda come mai due rivali in amore avrebbero potuto fare, ma come dissero loro stesse, l'amicizia e l'affetto possono superare qualsiasi barriera. In quel momento non si trattava più di Clarissa e Rebecca, della fidanzata e dell'amante di un ragazzo, ma di due anime in pena, incapaci di affrontare una tale tragedia senza sostenersi l’un l’altra.
Quando toccò alla madre di Evan parlare, nessuno riuscì più a trattenersi, nemmeno Francois, il quale era miracolosamente riuscito a mantenere il suo solito contegno fino a quel momento. Mai aveva visto in vita sua una persona tanto affranta e distrutta dal dolore. Quasi non la riconosceva più, sembrava essere invecchiata di almeno dieci anni dall'ultima volta che l'aveva vista, prima che Evan sparisse. Poi la donna non era più uscita di casa, si era licenziata ed era apparsa soltanto un paio di volte in televisione per implorare il figlio di tornare da lei, prima che il suo corpo venisse ritrovato.
Da quell’altare improvvisato chiedeva perdono al suo bambino per non essere stata in grado di tenerlo al sicuro, mentre la platea la ascoltava, avvolta in un silenzio irreale e carico di compassione. Tutto in lei appariva straziato. Il suo aspetto, la sua voce, il suo corpo tremante. Guardandola si aveva l’impressione che potesse svenire da un momento all’altro, crollando esanime su quel pavimento lucido e freddo. 
“Mio figlio, il mio unico figlio, tra poco verrà caricato su un carro funebre e portato nel cimitero dove la terra gelida lo inghiottirà per sempre. Come posso sopportare una cosa simile? Un ragazzo giovane e in salute, morto senza un perché e nel peggiore dei modi.” Scese dal podio portando con sé il microfono e continuò il suo discorso mostrando senza vergogna i singhiozzi e le lacrime di un’anima disperata.
Mentre abbracciava quel legno verniciato di bianco tra le sue parole ricorrevano immagini gioiose: Evan ancora piccolo che muoveva i suoi primi passi, le prime volte in cui l'aveva costretta ad assistere alle partite di baseball, i giochi in giardino, le rovinose cadute in bicicletta. E poi da adolescente i primi drammi, i litigi per cose futili, la foto prima del ballo scolastico e la gioia nel ricevere la lettera di ammissione al college, sebbene comportasse la sua partenza. La corsa in ospedale dopo che si era chiuso una mano nella portiera dell'auto, la fatica che aveva fatto per convincerlo ad andare in vacanza con loro l'estate precedente. Tutto quello che riusciva a ricordare di lui, il suo sorriso luminoso, la sua voce, il suo buon umore contagioso, la distruggeva. “Come potrò vivere senza tutto questo? Riuscirò a guardare il sole sapendo che lui, sotto cinque metri di terriccio, non lo rivedrà mai più? Come mangerò sapendo che lui si trova qui dentro, a consumarsi nel tempo? E come farò a ridere dopo che la persona che più amavo mi è stata portata via?”
Sapeva benissimo che se l'assassino di suo figlio fosse stato catturato, questo non lo avrebbe riportato da lei, ne era cosciente. Tutto ciò che desiderava era sapere perché Evan le fosse stato strappato in quel modo crudele, per quale motivo proprio lui ora giacesse freddo in quella bara, adagiato su morbidi cuscini bianchi. Non le interessava nemmeno che fosse fatta giustizia, quella solo Dio poteva farla, cercava solamente delle risposte.
Ormai la cerimonia stava volgendo al termine e prima che il feretro venisse trasportato fuori e posto su quell'orribile carro, Ivy raggiunse il palco. Indossava, come sempre, un lungo abito nero. Ma quella volta, nulla in lei, aveva l'aria grottesca e medioevale che era solita caratterizzarla. Il suo trucco era discreto e non aveva messo la matita nera sotto agli occhi, per evitare che le colasse sul viso a causa dei suoi inevitabili pianti.
Francois le sorrise, tentando di infonderle un po’ di sicurezza. Sapeva quanto fosse importante quel momento per lei e sperava che riuscisse a mantenere la calma e a cantare come aveva fatto durante le prove. Lei ricambiò, anche se la sua apparve più come una smorfia, a metà tra l’imbarazzo e il terrore puro. Prese il microfono tra le mani e con un gesto rapido e deciso, si sistemò i capelli, che come sempre le erano ricaduti davanti al viso. "Prima di dedicarti questa canzone..." iniziò con voce traballante "...volevo chiederti scusa a nome di tutti noi. Non sappiamo ancora cosa ti sia accaduto e ti prometto che faremo il possibile per arrivare alla verità." Respirò profondamente. Gli occhi di tutti, come spesso era successo, erano puntati su di lei, ma ora nessuno la giudicava, nessuno credeva che fosse matta. Quelli erano sguardi d’ammirazione, per il coraggio che una ragazza così timida, stava dimostrando. Stava, infatti, dicendo ciò che la maggior parte di loro pensava, ma che tutti tacevano.
"Io e te, non siamo mai stati molto amici, ti credevo un bambino viziato, un figlio di papà, che non avesse altri problemi se non quello di abbinare la felpa alle scarpe giuste. Tu pensavi che io fossi strana, insieme ai tuoi amici mi hai sempre umiliata ed evitata come se avessi avuto la peste. Negli ultimi mesi però, hai deciso di darmi una possibilità, e hai persino litigato con il tuo migliore amico per permettermi di uscire con voi e per farmi accettare nel tuo gruppo, e te ne sono grata.” Francois ripensò alla sera in cui lui ed Evan, al loro solito bar, erano arrivati alle mani, solo perché il ragazzo aveva invitato Ivy a bere con loro. Al momento Francois aveva pensato di voler semplicemente ristabilire l’ordine sociale, ma con il tempo si era reso conto del fatto che a infastidirlo era l’idea di vederla così affiatata ad Albert. Aveva capito che preferiva non avere niente a che fare con lei, piuttosto che esserle amico ed osservarla mentre altri ci provavano o peggio, ci riuscivano. Non poteva esserle amico soltanto. O tutto o nulla.
“Ora girano molte storie sul tuo conto, tanti credono che tu fossi coinvolto in qualcosa di losco e che la tua morte sia stata causata da qualche tuo terribile sbaglio. Ma noi, che ti conoscevamo davvero, sappiamo che non è così. Eri gentile e se lo sei stato con una persona come me, sicuramente lo sei stato con tutti. Eri sempre felice, nonostante tutto ciò che ti accadeva, tutto ciò che sentivi e vedevi. Siamo noi i criminali, siamo noi i colpevoli: non siamo riusciti a tenerti al sicuro, a tenerti con noi. E ora alcuni cercano di scaricare la colpa su di te, come se qualcuno potesse mai meritare una fine simile." Si fermò un istante e incrociò lo sguardo di Francois, poi lo spostò altrove, alla ricerca di Albert forse. Solo in quel momento si accorse che il ragazzo non era più seduto accanto a lui.
"Anche se alcuni ne dubitano, io so che tu ora ci stai guardando dall'alto e spero di riuscire a farti sorridere, almeno un'ultima volta." Fece un cenno col capo al professor Clive e la musica subitamente, avvolse la grande sala. La sua voce, già di norma calda e vellutata, si era tinta di una nota di malinconia che la rendeva ancor più commovente. Francois la ammirava con la bocca semiaperta, rapito dalle sensazioni che la sua interpretazione gli stava dando. Quella voce non solo gli entrava nelle orecchie, ma gli penetrava l'anima curandola da tutte le ferite che aveva subito. Percepiva brividi veloci e gelidi corrergli lungo le gambe e le braccia, mentre la sua pelle fremeva estasiata. Il cuore batteva seguendo la musica, e quelle parole, così cariche di verità erano come un unguento sugli ematomi che la morte di Evan aveva lasciato in tutti loro.
"And it's not a cry that you hear at night,
it's not somebody, who's seen the light,
it's a cold and it's a broken Halleluja.."
Una goccia d'acqua calda e saltata le rigò il volto mentre quei versi, così tremendamente attuali, uscivano dalle sue labbra rosee. Avanzò, scendendo dal palco e si avvicinò a quell'involucro bianco, sfiorandolo con le candide e delicate mani. Stava cantando per lui e lui soltanto. Di nessun'altro le importava in quel momento, nemmeno di quel ragazzo che, dalla prima fila, si innamorava un po' di più ad ogni nota che usciva dalla sua bocca.
Francois ripensò a tutto quello che avevano passato insieme, a quanto la vita con loro fosse stata crudele. Ricordò l’orrore sul viso della ragazza quando aveva veduto il corpo del loro amico e le notti che aveva passato a consolarla e a convincerla che non fosse stata colpa loro. Ivy si sentiva in debito con Evan, le sembrava ingiusto poter continuare a vivere, a sorridere, a divertirsi senza di lui. Francois amava quel lato di lei, la sua enorme empatia, la sua sensibilità. Era solo dispiaciuto per il modo in cui il destino glielo aveva fatto conoscere. Si preparò a riaccoglierla tra le sue braccia, per sussurrarle all’orecchio quanto fosse speciale, ma non appena la ragazza terminò la sua performance la vide cambiare espressione.
Mollò il microfono, il quale cadde a terra producendo un fischio assordante, e, come se avesse visto un fantasma, impallidì e corse via. Francois si alzò e d’istinto la inseguì, sapendo che altri dopo di lui avrebbero fatto lo stesso. Non appena uscito dalla porta d’emergenza la vide ferma immobile in mezzo al prato. Si guardava attorno impaurita, come un cerbiatto braccato.  “Ho capito.” Sussurrò, lasciando che fosse il movimento delle sue labbra a portargli quel messaggio.

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