-21. Inferno -

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7 ottobre
Ethel si guardò nel piccolo specchio del bagno della scuola. Sorrise soddisfatta, quella mattina si sentiva ancora più bella del solito. I suoi splendidi ricci ribelli le ricadevano morbidi e indomabili sulle spalle, coperte dalle maniche di pizzo rosa del suo vestito nuovo. Si sistemò la gonna a campana, e strinse un altro po’ la cintura che portava in vita. Scosse la testa, essere così vanitosa non le era mai piaciuto, non voleva essere come Rebecca, ossessionata dall’attirare l’attenzione altrui, ma in fondo sapere di essere bella la faceva sentire bene.
Prese la borsa color panna e raccolse il suo amato violino. Quel giorno aveva la dimostrazione in classe e sapeva già che sarebbe stata coperta di complimenti, specialmente dal professore il quale sembrava innamorarsi ogni volta del suo modo di suonare. Ethel si era sempre ritenuta mediocre in quella disciplina, ma da quando era arrivato Clive a scuola aveva iniziato a credere maggiormente nelle sue capacità, tanto che stava valutando l’idea di proseguire i suoi studi al conservatorio.
Certo, per poterlo fare sarebbe stata costretta ad affrontare la cosa che più la terrorizzava: la teoria. Non era mai stata brava in quelle cose. Per lei suonare era una questione di istinto, la musica dovrebbe venire dal cuore, non da una serie di asettiche misurazioni.
Entrò nella classe sorridente, Ivy ed Albert erano già lì, mentre i loro compagni sarebbero arrivati certamente in ritardo. La lezione iniziò nell’indifferenza di molti, e Ethel suonò il suo brano, sotto gli occhi rapiti delle poche persone a cui la musica piaceva realmente.
“Ottimo lavoro prima Ethel.” Disse il professore mentre i suoi compagni uscivano dall’aula. Lei si fermò e gli sorrise, sentiva che dopo quelle parole sarebbe soggiunto un “ma” e attese pazientemente il suo arrivo. “Ma la verifica di teoria non è andata altrettanto bene.” Ethel abbassò lo sguardo, odiava l’idea di abbassarsi la media per una sciocchezza simile.
Ma il professor Clive era gentile, non voleva scrivere sul registro un voto così negativo come quello che aveva guadagnato nell’ultimo test, e si offrì di darle una seconda possibilità. "La settimana prossima faremo un’interrogazione di recupero. Nel frattempo, se vuoi qualche consiglio ti aspetto nel mio ufficio oggi pomeriggio." Ethel accettò senza esitare, forse solo la sua buona volontà nello spendere altre ore a scuola avrebbe già contribuito ad aumentarle il voto.
A pranzo avvisò Albert ed Ivy del cambio di programma, un po’ a malincuore. Avrebbe preferito uscire con i suoi amici, ma riteneva importante, ogni tanto, concentrarsi anche sulla carriera scolastica, soprattutto in quell’ultimo anno.
"Vieni avanti Ethel, non ti mangio mica." Il professor Clive le fece segno di entrare, vedendola esitare alla porta. L'ufficio era piccolo ma accogliente, con una moquette bianca a ricoprire il pavimento e il mobilio color notte. Le finestre erano coperte da pesanti tende grigie e nonostante fuori splendesse un sole caldo e autunnale, quel posto non era illuminato da altro che una piccola lampada giallastra. Si sedette sulla poltrona di fronte alla scrivania e si abbassò per prendere dallo zaino il quaderno e il libro di teoria.
"Prima di iniziare, ti va di suonare un po' per me?" Ethel annuì, leggermente confusa da quella richiesta, estrasse lentamente lo strumento e gli spartiti, pronta ad eseguire un brano qualunque, a lui non importava quale fosse. Clive si alzò e mosse dei grandi passi verso l'armadio che si trovava vicino alla porta. "Aspetta, ti prendo il leggio." Aprì le ante, provocando un grande rumore metallico mentre lei cercava di trovare una penna per poter, più tardi, prendere appunti.
Ethel appoggiò il violino alla spalla, respirò profondamente, come se dovesse prepararsi a stare in apnea producendo i primi soffici suoni. Lui l’ascoltava ad occhi chiusi, dondolando debolmente la testa. Sembrava completamente avvolto dalla melodia ed estasiato dalle note che produceva con l'archetto.
Per la prima volta Ethel pensò che fosse davvero un uomo strano, bizzarro e provò una leggera ed indescrivibile agitazione, quasi come se il suo corpo avesse percepito il pericolo prima che il cervello potesse fare lo stesso. Allontanò dalla sua mente quella sensazione, in fondo, tutti gli artisti sono particolari. Terminato il brano, tornò a sedere mentre lui la inondava di complimenti, esattamente come aveva fatto poche ore prima.
Molto pazientemente, le rispiegò alcuni concetti che non aveva compreso a fondo e poi le chiese di fare un esercizio di solfeggio. Pur essendo ancora incerta le sembrava di star lavorando meglio rispetto a tutte le altre volte. Seguiva la scrittura delle note con attenzione e senza distrarsi, mentre la sua mano si alzava ed abbassava ad ogni battito.
"Devi essere più delicata durante il movimento Ethel." La riprese e si spostò, sedendosi accanto a lei. Con un braccio le avvolse le spalle, afferrandole il polso per poter guidare le sue movenze. "Vedi, dolce... così..." Ethel iniziò a tremare, quel contatto la infastidiva e la sensazione che aveva provato mentre suonava era prepotentemente ricomparsa. C’era qualcosa di maligno in lui, in quella situazione, ed Ethel iniziò a sospettare di aver fatto un grave errore recandosi lì sola.
Tentò di discostarsi da lui in qualche modo ma non ci riuscì. "Dai Ethel, non distrarti, stai andando bene." Le sussurrava continuamente frasi di quel genere all'orecchio, come se ci fosse qualcun altro in quella stanza che non doveva udire le sue parole.
Improvvisamente, la mano che aveva lasciato libera, le sfiorò la coscia cercando timidamente di insinuarsi sotto il vestito color confetto. Ethel sussultò e gli chiese cosa stesse facendo ma lui non rispose, continuando a parlarle solo degli esercizi.
La ragazza si stancò in fretta, non aveva intenzione di rimanere lì un secondo di più. Si alzò bruscamente dalla sedia senza dirgli nulla, tanto avrebbe continuato ad ignorarla, a trattarla come una sprovveduta. Lui non si mosse e la lasciò arrivare fino alla porta ma quando afferrò la maniglia, iniziò a piangere, rendendosi conto di essere in trappola.
Era chiusa e la chiave non c'era, l'aveva presa lui. Non era un caso ciò che stava succedendo. Quella mano indiscreta sulle sue gambe non era stata spinta da un impulso improvviso. Aveva pianificato tutto. Quando aveva preso il leggio dall'armadio, ne aveva approfittato per rinchiuderla lì dentro. Ethel prese il telefono dalla tasca ma non riuscì a farci nulla, perché lui con un balzo, la raggiunse e le afferrò il polso, stingendolo con forza. Non riuscendo a tenere la mano chiusa, fece cadere il cellulare e subito il professore la spinse contro il muro con forza. Non pensava fosse così potente. Dal suo aspetto non veniva spontaneo immaginarlo. Sembrava un uomo goffo, impacciato a tratti ridicolo e solo in quel momento si stava rendendo conto di quanto fosse crudele il suo sguardo.
Con un unico movimento le strappò la parte superiore del vestito, mentre cercava inutilmente di spingerlo via. Con un pezzo di stoffa del suo stesso abito le tappò la bocca, per evitare che potesse continuare ad urlare e richiamare l'attenzione di qualcuno.
Dopo vari tentativi, il suo spirito di sopravvivenza prevalse e riuscì a rivoltarsi per qualche secondo. Alzò il ginocchio velocemente, colpendolo alle parti basse. A quel punto si allontanò da lei, contorcendosi dal dolore. Ethel provò quindi di riafferrare il telefono, sapendo che se avesse provato invece ad aprire la porta, avrebbe perso l'unica opportunità che aveva per chiamare aiuto.
Purtroppo per lei però, non lo aveva colpito abbastanza forte da avere il tempo di chiamare qualcuno e prima che riuscisse a sbloccare il telefono, lui l’aveva nuovamente aggredita.
La colpì al ventre con un calcio facendola finire a terra, non provò nemmeno a rialzarsi, il dolore era troppo forte e lui continuava ad infierire, con lo sguardo infuocato dalla rabbia. Ethel non urlava più, piagnucolava e basta, mentre lui le ripeteva frasi orribili.
"Potevi risparmiarti tutto, questo bastava che facessi la brava." “Sei tu che mi obblighi a farti del male.” “Se ora ti comporti bene, ti darò un voto altissimo alla prossima interrogazione…” Si stancò, nelle sue intenzioni non c'era quella di ammazzarla di botte, sebbene sembrasse sul punto di farlo. Si sedette sopra di lei, tappandole la bocca con una mano. "Adesso non complicare le cose, rilassati e vedrai che farò in fretta."
Ethel restò in silenzio, incapace di realizzare ciò che le stava accadendo. Era spaventata, il suo corpo bruciava e tremava allo stesso tempo. Le dita di Clive la toccavano ovunque, viscide e gelide, mentre lei cercava con tutte le sue forze di risvegliarsi da quell’incubo.
Lo stava odiando moltissimo, non credeva nemmeno che fosse possibile volere così tanto male ad una persona. Avrebbe voluto ucciderlo, prendergli la testa e fracassarla con un masso, vedere il suo sangue colare a terra e i suoi occhi svuotarsi di quella luce demoniaca. Ma era inerme, totalmente alla sua mercé.
L'emozione che più la opprimeva in quel momento era l'umiliazione. Era stata così stupida da recarsi lì, sola con un uomo di cui non sapeva nulla e non era nemmeno stata capace di difendersi, di respingerlo, di chiamare aiuto. Credeva che l’avrebbe assassinata, non appena avesse finito di fare con il suo corpo ciò che voleva.
Si tolse la cravatta e con essa le legò le braccia, in modo che la smettesse di spingerlo via. Le sollevò la gonna e si abbassò la cerniera dei pantaloni e il personale Inferno di Ethel ebbe inizio.

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