-20. Un bagno di sangue -

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6 marzo
“Non penso verrà.” Francois gli indicò la madre di Ethel che entrava da sola nella palestra in cui si sarebbe tenuto il funerale. Albert annuì senza emettere un fiato. Si aspettava di non vederla lì, ma in fondo la speranza era sempre l’ultima a morire. Ethel non era nelle condizioni mentali adatte per partecipare a quella cerimonia. Nel momento esatto in cui aveva scoperto che il cadavere di Evan era stato ritrovato, anche l’ultima briciola di felicità che le era rimasta era stata spazzata via.
L’ultimo raggio di sole superstite nelle sue iridi era svanito, coperto da un manto di tristezza e senso di colpa. Perché, anche se non glielo aveva detto, Albert riusciva a leggerlo sul suo volto: Ethel si sentiva responsabile di ciò che era successo ad Evan.
Lui però non riusciva a capire come le due cose potessero essere collegate. Dopo aver salutato Rebecca per l’ultima volta, Evan aveva incontrato qualcuno, una persona a cui doveva molti soldi, almeno cinquantamila dollari, forse anche cento. Come poteva, questo fatto, c’entrare con la sua amica? Cosa diavolo stava succedendo in quel paesino? Mentre prendeva posto su una seggiola color cremisi Albert rimpianse la sua città natale.
Era fuggito da lì per dimenticare, per trovare la calma e vivere una vita normale, ma era solo passato dalla padella alla brace. Il dubbio di essere proprio lui la causa di tutte quelle tragedie continuava a tormentarlo. Magari se fosse rimasto a Seattle non sarebbe mai successo nulla di tutto ciò, Heston sarebbe rimasto il luogo perfetto dove crescere i propri figli senza apprensioni. Forse era la sua presenza a rovinare sempre tutto, forse la sfortuna lo perseguitava.
La cerimonia cominciò, sotto gli sguardi straziati di un’intera comunità. Tutti si stringevano attorno alla famiglia di Evan, la classica famiglia da sogno americano. Una madre bella con i capelli biondi sempre in ordine, che portava eleganti tubini color pastello con decolleté sapientemente abbinate e gioielli belli almeno quanto lei. Un padre avvocato, perennemente in giacca e cravatta, preoccupato solo di dare il migliore dei futuri al proprio figlio. Una casa perfetta, un giardino e un’auto perfetti. E a completare il quadro c’era lui: il classico ragazzo impeccabile, un cliché vivente. Capitano della squadra di football, popolare e amato da tutti, fidanzato con la cheerleader bionda e ricca, nonché una delle ragazze più desiderate di tutta la scuola. Tutto così perfetto da non sembrare vero, eppure era incredibile come quel paradiso fosse caduto a pezzi nel giro di pochi mesi.
Passare dall’avere tutto al nulla più totale non era mai sembrato così semplice. E nessuno ad Heston poteva più ritenersi al sicuro. Finché il mostro non fosse stato catturato, era impensabile tornare alla normalità. L’assassino avrebbe potuto colpire ancora, distruggere un’altra famiglia, un altro gruppo di amici.
Albert assistette inerme ai discorsi di tutti coloro la cui vita era stata spezzata: Francois che si sforzava di non mostrare la sua disperazione, Clarissa e Rebecca che si facevano forza a vicenda e infine la signora Murphy. L’essere più contrito dal dolore che avesse mai veduto.
Ma in tutto ciò la sua mente non riusciva a concentrarsi sulle parole che uscivano da quelle bocche bagnate dal pianto: era troppo rapito dalla sedia vuota accanto a lui, quella destinata ad Ethel. Sentiva che qualcosa non andava, sapeva che quella volta non sarebbe stata come tutte le altre. La ragazza non era lì, ma non solo perché non ne aveva voglia, o coraggio. Lei stava facendo altro, lei lo stava abbandonando, come Carly aveva fatto prima di lei.
Non sapeva come, ma ne era certo. Provava lo stesso senso di vuoto e inquietudine che aveva sentito dopo che Carly lo aveva salutato quel pomeriggio, il giorno in cui si era impiccata. Era qualcosa di inspiegabile, un formicolio interiore che gli rendeva lento e pesante il respiro, che allontanava e ovattava i suoni che lo circondavano. La prima volta aveva deciso di ignorarsi, di non darsi ascolto e classificare la cosa come un’ansia ingiustificata, ma dopo aver perso Carly si era ripromesso di non farlo mai più. Ethel aveva bisogno di lui e non avrebbe commesso lo stesso errore. Non avrebbe aspettato che qualcuno gli comunicasse che la sua amica non c’era più, non avrebbe atteso la fine senza lottare.
La madre di Evan, terminato il suo discorso, si gettò sulla bara del figlio, piangendo disperata, alcuni dei presenti si alzarono e corsero verso di lei, per cercare di tranquillizzarla. Albert approfittò di quel momento di confusione generale per andarsene inosservato, per correre da lei. Passò di fianco alla mamma di Ethel e le sussurrò le sue preoccupazioni, così i due uscirono assieme, diretti a casa della donna.
Mentre erano in auto, Albert chiamò un’ambulanza spiegando, il più tranquillamente possibile, la situazione. Cammille premeva con ansia il piede sull’acceleratore, mentre Albert pregava di riuscire a fare in tempo. Fortunatamente la lussuosa villetta in cui Ethel viveva non era molto distante dalla scuola, e, in pochi minuti erano già di fronte all’ingresso.
Albert scese dalla macchina e si precipitò all'interno della casa. L'aria sembrava rifiutarsi di riempirgli i polmoni e ogni secondo che trascorreva gli sembrava un'eternità. Forse era già troppo tardi e la sua Ethel aveva portato a compimento la sua missione, ma lui non voleva accettarlo, anzi non voleva nemmeno considerare una simile possibilità. Non poteva perdere anche lei, non così, non senza conoscerne nemmeno il motivo. Non le avrebbe mai permesso di fargli questo, di abbandonarlo in quel mondo freddo e grigio, di rinchiuderlo nuovamente in quella gabbia di angosce e sensi di colpa. L'avrebbe fermata e si sarebbe impegnato al massimo perché tutto potesse tornare com'era un tempo, perché lei potesse ricominciare a sorridere.
Come si aspettava trovarono la porta del bagno chiusa a chiave, e dall'interno, una musica che ben conosceva, suonava debolmente.
"Sad to see you go...
Was sorta hoping that you'd stay."
“No!” Urlò in preda alla disperazione. Senza riflettere iniziò a battere i pugni contro il legno che lo separava da lei. Doveva aprire quella porta, doveva fermarla. Anche la madre della ragazza cominciò a chiamarla ed implorarla di farli entrare o di dare qualche segno di vita, di far capire loro che stesse bene, che ci fosse ancora. Ma dalla stanza si udivano solo le parole struggenti di una musica che, se fino a quel momento aveva abitato i sogni di Albert, dopo quel pomeriggio sarebbe stata padrona dei suoi incubi peggiori.
Appoggiò il capo all’uscio e respirò profondamente. Doveva riflettere e trovare una soluzione in fretta. Il tempo non era molto, ma era deciso a non lasciare che anche lei gli scivolasse tra le dita. Uscì dalla porta principale e girò attorno alla casa, trovando la finestra che dava sul bagno.
Attraverso la tenda riuscì a vedere la vasca da bagno ribollente di schiuma e una mano di Ethel fuoriuscire dall'acqua, interamente coperta del suo stesso sangue. 
Senza pensare prese un sasso abbastanza grande e con una forza che solo la paura poteva alimentare, riuscì a creare un buco nel vetro. Vi infilò il braccio, lacerandosi la pelle. Non sentì dolore, non aveva tempo per quello, doveva entrare in quella maledetta stanza, doveva farla uscire da quel bagno di sangue.
Finalmente raggiunse la maniglia e spalancò la finestra. Una volta dentro, quello che vide lo distrusse. Il corpo di Ethel giaceva immobile, immerso nell'acqua rossa, solo il suo viso esangue e la sua mano destra erano in superfice. Un quadernino dalla copertina argentata, stava aperto sulla sedia accanto alla vasca e recitava poche, tremende parole mentre la loro canzone continuava a ripetersi, divenendo sempre più spaventosa.
Tuffò le mani in quel lago vermiglio e tastò il collo della ragazza sperando che respirasse ancora. Era fredda, ma ad Albert sembrò di percepire una flebile pulsazione. Sorrise, nonostante tutto sembrasse indicare il contrario, lui sperava, o forse voleva sperare. In fondo quella era l’unica cosa che gli era rimasta.
In quel momento sentì arrivare l'ambulanza e subito girò la chiave nella toppa per permettere ai medici di entrare. Prima di loro, Camille fece il suo ingresso nel bagno. Non disse nulla, ma la sua espressione valse più di mille parole. Albert si allontanò da Ethel, lasciando che i soccorritori facessero il loro lavoro, e, sebbene non fosse mai entrato in confidenza con la donna, la abbracciò. Sapeva che il loro dolore non era comparabile, ma in due la sofferenza si affronta meglio.
Camille ricambiò, stringendolo con forza. “Grazie.” Sussurrò, stava per dire qualcos’altro, ma le parole vennero soffocate dal pianto. Restarono così, come due statue di cera, finché un infermiere non invitò la madre della ragazza a seguirli in ambulanza. 
La situazione era grave, aveva perso molto sangue, ma era viva. Ancora priva di sensi, la caricarono su una barella, e la portarono via senza che lui potesse seguirla. Rimase lì, solo, con il cuore in gola e le mani sporche del sangue della persona che amava di più, senza sapere se l'avrebbe mai più rivista viva.

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