La vendetta delle fate irlandesi

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Quando aprii gli occhi non riuscii a credere di aver dormito l'intera notte.
Mi tastai il petto e con una lieve pressione sondai le costole. Da sotto il largo pigiama seguii i tratti frastagliati dove le pelle era stata ricucita e non provai niente.
Era strano, ma possibile.
Il cambiamento improvviso era stato un buon deterrente per tenere la testa altrove, ma mi sentii comunque in colpa.
Era un mio dovere tenere a mente il motivo che mi aveva portato lì. Ogni singolo istante senza pensare a lei era un errore. Una superficialità.

Raggiunsi il piano di sotto, tratteggiando nei pensieri lo stesso attimo infinito di quella notte, sentii il suono dell'arrivo dei soccorsi e le dita delle mani distese sull'asfalto umide di sangue.
Dimenticare non era un'opzione.
"Corro in studio per un'emergenza. La colazione è già pronta." Finn strinse la sciarpa al collo nell'istante in cui Jamie scese le scale. "Accompagnala a scuola" disse, indicandomi con una sfuggente occhiata. "E non fate tardi." Poi raccolse la valigetta di pelle lasciata sul tappetino d'ingresso e si apprestò a uscire.
"Sarà fatto Finn!" rispose Jamie, con lo stesso mansueto atteggiamento che sfoggiava solo in sua presenza.
Fissai la porta chiusa.

Jamie non mi avrebbe accompagnata da nessuna parte.
Jamie manipolava la realtà a suo vantaggio. Jamie era prepotente, era indisponente e aveva rubato la mia macchina fotografica.
"La rivoglio!" urlai, appena fummo soli.
Mi osservò da sotto le ciglia folte.
"Supplicami allora" disse poi, glaciale.
Sembrava compiaciuto dalla rabbia che mi affiorava in volto.
"Se pensi mi piegherò non conosci la portata dell'errore che stai commettendo." Lo stavo sfidando. Quell'atteggiamento inscalfibile e fiero mi dava sui nervi.
Ma lui aprì il frigo senza prestarmi attenzione, prese il flacone di buttermilk e ne buttò giù un sorso direttamente dal cartone.
"E quello..." mi avvicinai a lunghi passi per sfilarglielo dalle mani. "È mio!"
Jamie fissò l'anta aperta della dispensa per un lungo istante, il ponte del naso perfettamente dritto e gli occhi cerulei erano la più chiara dimostrazione della sua ingannevole apparenza. Dentro il suo animo immaginavo linee spezzate e cocci di vetro con cui tagliarsi facilmente.

Ruotò il capo di lato, schiuse la bocca e raccolse con la lingua la goccia di latte che imperlava l'angolo delle labbra. Fu un gesto così mirato e lento che per un'istante mi sentii confusa, lontana dalla discussione che stavamo affrontando.
Lui non era letale come aveva detto Briget, lui era illegale. Si era preso la briga di scendere di sotto con addosso solo un paio pantaloni della tuta così bassi in vita da lasciare intravedere i muscoli addominali che scendevano sotto l'elastico.
"Non c'è niente di tuo dentro questa casa" dichiarò con voce salda, riportandomi alla realtà.
Pallido e micidiale sapeva come colpire.
Stordiva e poi affondava.
"E da quando?" Mi sporsi verso di lui.
"Da quando non sei più tornata" mi provocò, voltandosi di nuovo per evitare di guardarmi.

Da quando non sei più tornata.
Se pensava di zittirmi con quelle sei parole pronunciate con indifferenza, si sbagliava.
Avevo affrontato di peggio.
"Le cose sono cambiate nel caso tu non te ne fossi accorto. Ora sono qui, e non posso tornare indietro." Dirlo ad alta voce mi ferì.
"La rivoglio ho detto!" ripetei.
Mi stava sottraendo qualcosa di più di un oggetto, avevo bisogno di entrare in contatto con la natura di Jackson Hole, proprio come ero abituata a fare in Irlanda.
Niente sarebbe dovuto cambiare.
Niente mi avrebbe dovuto distogliere dalle mie vecchie abitudini: era l'unico modo per restare ferma là, oltre Oceano, a Kinsale.

"E io voglio quello che c'è dentro." La sua calma mi disturbò.
"È solo una foto" risposi esausta.
"Non è solo una cazzo di foto." Scattò in avanti con un movimento improvviso. Il petto proteso e lo sguardo truce mi fecero scorgere l'istinto selvaggio radicato in lui.
C'era qualcosa di potente che alimentava tutta quell' immotivata aggressività. Trasparì dal repentino cambiamento d'espressione che gli indurì il volto.
"Allora riprenditi quello che c'è dentro e ridammi quel che è mio!"
Si degnò di guardarmi.
"Smetti di disturbare la mia quiete e potrei pensarci." Rilassò le spalle e tornò al piano di sopra.
Non potei impedirmi di fissarlo mentre procedeva, salendo le scale una passo alla volta, con quella sua andatura dannatamente sinuosa e destabilizzante.

Non mi mossi fin quando non se ne fu andato di casa sbattendo la porta.
Seduta sul divano con le braccia strette alle ginocchia e l'orgoglio ferito pensai per tutto il tempo a come vincere la stupida partita che avevo avviato con la mia prima mossa.
Presa da un moto di stizza salii le scale di corsa e mi fermai di fronte alla sua stanza.
Doveva averla nascosta lì dentro da qualche parte.
Strinsi la maniglia ed esitai.
Non avrei dovuto farlo, invadere lo spazio personale di qualcuno senza permesso era vile, ma era stato lui a non lasciarmi altra scelta.
Immaginai di trovare un'ambiente cupo e insidioso, ma quando con uno slancio spalancai la porta ed entrai, scoprii che era rimasto quasi tutto come ricordavo.

Si respirava il suo profumo lì dentro.
Le tavole di legno delle pareti erano bianche come la neve, il tempo le aveva segnate ma risplendevano nella luce del mattino che entrava dalla finestra. Il grande letto di ferro battuto era una nota scura che riempiva lo spazio, le foglie dorate lo decoravano con un contorto ricamo sulla testata.
L'unico elemento nuovo era un'enorme scrivania posizionata di fronte alla porta. Aveva preso il posto del comò di seconda mano recuperato da Finn anni prima.
Schiusi le labbra per lo stupore quando vidi che sopra il piano di legno, l'intera parete era ricoperta da fotografie. Non erano incorniciate, ma appese con scotch e puntine. Un enorme collage assemblato che dava vita a un'unica immagine bellissima.

Nitidi banchi di nebbia sulle rocce grigie dei pendii venivano spezzati dal verde cupo degli abeti. Poi c'erano fiocchi di neve immortalati nei loro incredibili dettagli, scorci incantati lungo il lago e notti brillanti con le frastagliate ombre delle montagne all'orizzonte.
La bellezza di Jackson Hole era racchiusa dentro ogni piccolo riquadro. Ed era una bellezza suggestiva, fiabesca, a tratti misteriosa.
Uno sfondo chiaro al centro mi colpì. Mi avvicinai e notai che era un disegno, finemente elaborato con la punta di una matita raffigurava un lupo. Gli occhi grigi e i dettagli così realistici e curati facevano credere di essere di fronte a una foto come tutte le altre.
Era una raffigurazione inquietante, ma allo stesso tempo meravigliosa.

L'animo di Jamie, che avevo creduto tutto tenebre e drappi neri, si illuminava di una nuova luce dalle sfumature indiscutibilmente uniche.
Mi sentii un'intrusa.
Stavo rovistando dentro di lui, e per quanto mi sentissi attratta da quella stanza e dal suo intimo contenuto, riportai i pensieri al motivo per cui ero lì.
Mi sembrò un delitto aprire i cassetti senza sapere in cosa sarei incappata, perciò mi limitai a guardarmi attorno.
Una pila di magliette scure era ripiegata sulla sedia di fronte alla scrivania, un tappeto avorio era disteso ai piedi del letto, seguii con gli occhi le lunghe frange ai bordi e la vidi.
L'angolo di una grande scatola spuntava da sotto le lenzuola color petrolio.

Dalla posizione sembrava essere stata maneggiata di recente per poi essere spinta lì sotto di fretta . Mi piegai sulle ginocchia e la feci scivolare sul pavimento. Il laccio  che usciva dal coperchio mi catturò.
Era la tracolla che Sten aveva legato alla mia macchina fotografica, la riconobbi per l'intreccio di cuoio scuro, mi aveva detto che era stata fatta a mano da lui personalmente.
L'avevo trovata.
La sfilai cautamente dalla scatola e mi sentii in errore, spinsi da qualche parte dentro di me il senso di colpa: lui non era forse entrato nella mia stanza per sottrarmela?
Io non avevo fatto nient'altro che riprendermela.

La infilai nello zaino e uscii di casa correndo.
Ero in ritardo ma non aveva importanza in quel momento.
Il pensiero della faccia che avrebbe fatto Jamie una volta scoperto di non avere più l'asso nella manica mi fece sentire potente.
Eppure non bastava.
Bramavo di più.
Mi voleva fuori dai piedi, ma avrei fatto di tutto per ricordargli che ero lì, e che ci sarei rimasta ancora per molto.
Mi aveva chiesto di non disturbare la sua quiete, non aveva la minima idea di quanto fossero vendicative le fate Irlandesi.

Mi aveva chiesto di non disturbare la sua quiete, non aveva la minima idea di quanto fossero vendicative le fate Irlandesi

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The Untouchable LoveWhere stories live. Discover now