CAPITOLO NONO - LETE

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Amal era scomparsa ed io mi trovavo nel paradiso terrestre. Ora mi appariva chiaro cosa intendesse ripetendo più volte che avremmo avuto poco tempo. L'affermazione fino a un secondo prima era passata inosservata, come se non avessi voluto mai crederci veramente, ed ora mi trovavo nel luogo più bello del quale avessi mai potuto fare esperienza, ma senza la persona per la quale tutto ciò che stavo esperendo prendeva effettivamente senso. Avrei preferito trovarmi nelle profondità dell'Inferno con lei, piuttosto che nel paradiso in terra da solo. Forse era un suo regalo per me, forse, agendo così, aveva tentato di salvarmi dagli orrori del Dedalus. Eppure senza di lei tutto quello che avevo di fronte non era che una mera illusione senza significato. Dentro di me sapevo che non l'avrei più rivista, non in questa vita e non in questo luogo. Dovevo uscirne.

Ero comparso nel bel mezzo del nulla, non c'erano costruzioni, non c'erano porte, mi sentivo come intrappolato in quella vastità di colori e amenità . Mi prese un vago senso si agorafobia, mi girava la testa. Decisi di seguire l'unica direzione che mi era stata data come disponibile: il gigantesco salice in lontananza.

Costeggiai il ruscello fino ad arrivare al lago. Vidi che appena dietro alla cascatella, che si versava con dolcezza nello stagno, c'era una piccola grotta. Mi domandai per un secondo se fosse il caso di entrarci e cosa vi avrei trovato. Avrei potuto usarla come una sorta di portale alla stessa maniera in cui Amal aveva usato il passaggio nel locale che avevamo attraversato? Sarei stato in grado di raggiungerla semplicemente convincendomi di poterlo fare? L'istinto mi deviò da quell'idea. Il percorso mi era già stato tracciato davanti: entrare nella grotta sarebbe stato un passo indietro, un po' come rientrare nella caverna platonica dopo aver scoperto la verità che si apre al di fuori di essa, e riabbandonarsi così alle ombre e all'ignoranza precedenti. Seguii il ramo d'acqua che usciva dal piccolo lago e proseguiva in direzione delle macchie d'alberi. Vi entrai e mi accorsi che, man mano che proseguivo, la vegetazione e i rami divenivano più fitti e la luce esterna faceva fatica a penetrare le fronde. Da dentro alla foresta non riuscivo a vedere il salice ma sapevo di star seguendo la giusta direzione. Proseguii a lungo dentro gli alberi, dove c'era solo il rumore dei miei passi e degli animali silvani che vi abitavano. Ad un certo punto stimai che non dovevo essere molto lontano, eppure, in alto nel cielo, la cima dell'albero non la si vedeva spuntare da nessuna parte. Forse avevo inavvertitamente preso un'altra direzione?

Distinguevo nuovamente un rumore d'acqua corrente, diverso dal precedente, costante e intenso, sebbene distante dal punto in cui mi trovavo. Mi ero già lasciato il ruscello alle spalle da un pezzo. Avevo deciso di scostarmi dalle sue rive quando mi accorsi che stava deviando rispetto alla direzione che mi ero prefissato. Eppure questo non era sicuramente il rumore di quel ruscello. Era certamente un corso d'acqua più importante, forse un fiume. La luce cominciava ad ampliare il suo spettro e colori vivaci dardeggiavano da diverse direzioni di fronte a me. Piano piano gli alberi si fecero più radi e il rumore d'acqua si fece più forte e distinguibile.

Sbucai in una radura fiorita completamente imbiancata da minuscole e fitte margherite primaverili. Appena oltre la radura scorreva un fiume in piena dal flusso impetuoso sebbene non eccessivamente esteso tra sponda e sponda. Le sue acque avevano degli strani riflessi rossastri o violacei. C'era una figura umana nel bel mezzo della radura. Era una figura femminile che si chinava a raccogliere delle erbe da terra e se le portava alla bocca. Incuriosito mi avvicinai nella speranza di ottenere delle indicazioni o un aiuto. Mentre mi avvicinavo cercai con lo sguardo la mia meta, ma sebbene mi trovassi in un luogo totalmente aperto ad ogni direzione, il gigantesco albero non si vedeva.

Era una ragazza giovanile d'aspetto, anche se stimai avesse un'età superiore a quanto dimostrasse. Era vestita in maniera semplice, con dei pantaloni larghi, una tunica bianca che le arrivava appena sopra le ginocchia e i piedi scalzi. Aveva i capelli castani con dei riflessi biondi, leggermente e naturalmente scompigliati, un viso rotondo e morbido, labbra carnose e dei grandi occhi azzurri con un taglio dolce che solo molto vagamente poteva apparire orientale. Nella sua semplice e naturale forma umana sembrava essere perfettamente in simbiosi con il luogo in cui si trovava. La sua visione mi scatenò una sorta di potente reminiscenza che tuttavia mi travolse come qualcosa di distante e separato da me stesso. Ancora una volta mi sembrava di vivere il ricordo di qualcun altro, eppure le immagini mi sembravano vivide e chiare. Era come se la conoscessi da sempre. Risvegliò in me una vita tranquilla e colma di esperienze di ogni sorta. Una vita completa di tutti i suoi passaggi, una preadolescenza fatta di tentativi d'amore impacciati, studi e viaggi fatti assieme, anche in luoghi lontani, amicizie comuni, piccoli problemi di coppia, ma anche tanta serenità e disponibilità. Risvegliò in me il ricordo di un amore vero e duraturo, la possibilità di una vita sostanzialmente perfetta e con poche rinunce, dove ognuno dei due riusciva a ottenere i suoi spazi e la sua forma di felicità: un amore che si sovrapponeva così tanto ad un'amicizia da non riuscire facilmente a distinguerne i confini.

Avvicinandomi, senza sapere effettivamente come fosse possibile, la chiamai per nome: «Francesca?». Lei apparve sorpresa, mi guardò con espressione neutra e gli occhi ben aperti, ma senza spavento. «Come conosci il mio nome? Aspetta... quello non è il mio nome, almeno non in questa vita e in questo luogo... tu non sei... Io aspetto qualcun altro».

Mi riscossi e scusandomi le chiesi: «Sì, perdonami, non so bene perché ti abbia chiamato così... Ma dov'è il salice?». Sembrò sorpresa. «Hai visto il salice? Strano... Ma se ora non lo vedi penso sia una buona cosa... per te intendo. Non so, tu che ne pensi?».

Riflettei un momento osservandomi interiormente. Era come se stessi dialogando in completa serenità con un'entità proveniente da un altro mondo e l'argomento in questione era qualcosa che mi riguardava intimamente.

«Era una visione bellissima e cercavo di avvicinarmi, poi però il percorso è divenuto difficile e ho cominciato a dubitare di riuscire a raggiungerlo... Ho come l'impressione che se l'avessi raggiunto non sarei riuscito a sopportarne il peso... Come se avessi dovuto raccogliere in me un'estrema sofferenza».

«Mmm, probabile... potresti aver ragione, ma quindi ora cosa cerchi?».

«Non lo so. E' tutto così confuso, come se stessi dimenticando qualcosa... credo di voler uscire da qui comunque, anche se ci sei tu».

Ancora una volta avevo parlato come se inconsciamente avessi dato per scontato che lei fosse una persona indispensabile per me. Al ricordo della visione dell'albero mi salì una fitta di dolore e di sconforto che prima non avevo notato. Solo ora che mi trovavo in quella situazione riuscivo a sentirla in maniera nitida... che fosse dolore? «Io non sono quella che cerchi... Io aspetto qualcuno che ti assomiglia, ma non sei tu. La confusione che senti e dovuta alla vicinanza di questo fiume. Le sue particelle in sospensione, i suoi fumi, confondono i ricordi e la mente. Non puoi andartene da qui se non attraversandolo. E' un'esperienza che pochi hanno avuto il coraggio di fare e non saprei dirti quali conseguenze potrebbe avere per la tua identità e la tua coscienza».

Rimasi per qualche secondo in meditazione, ma sapevo già cosa avrei dovuto fare, non c'era ritorno... un'unica via.

«Grazie... ti rivedrò? Qual è il tuo vero nome?».

«No, non mi rivedrai... non credo. Il mio nome l'ho dimenticato da tempo, ma so quali nomi non possiedo». Sorrise placidamente.

Mi avvicinai alle acque violacee del fiume che scorreva impetuoso di fronte a me. Man mano che proseguivo era come se venissi colto da un'ebbrezza sempre più intensa. Quando mossi gli ultimi passi verso la riva il mondo alle mie spalle cominciò ad offuscarsi e scomparire in una densa nebbia. Immersi la mano sinistra. Non ero in grado di contare quante dita avessi. La visione si distorse e dimenticai di aver camminato fino a lì, dimenticai di aver incontrato Francesca, dimenticai il Dedalus, dimenticai tutto... Dimenticai Amal. Caddi come a rallentatore, svenendo dentro i flutti del Lete. Non sentii dolore ne alcuna sensazione spiacevole. Non opposi alcuna resistenza.

Tutto intorno a me divenne buio.

DEDALUSDove le storie prendono vita. Scoprilo ora