CAPITOLO DICIANNOVESIMO - CATARSIS

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La sfera sembrò scaricare il suo peso su di me, abbandonandosi dolcemente e con premura. Era leggera. La stavo sostenendo tra i palmi delle mani e la mia guancia posava sulla sua superficie liscia. Riconobbi, al contatto della pelle con il vetro, che stava cambiando qualcosa nella composizione del materiale, come se ciò che avevo tra le braccia non fosse più fatto di vetro, ma si fosse, quasi alchemicamente, tramutato in un oggetto di gomma. Mi sembrava di stringere un pallone morbido e colmo d'aria.

Lasciai la presa incuriosito, ma non provavo ne spavento ne sorpresa. La palla cadde a terra rimbalzando e cominciò a scorrere lungo il pavimento. Rotolò per qualche metro in direzione della parete che mi stava di fronte e poi scomparve dietro di essa, attraversandola senza alcun impedimento.

Dopo la folle corsa tra i meandri di quel labirinto, con il duplice scopo di seguire la voce di Amal e di sfuggire dalla minaccia degli osservatori, sarebbe stato lecito pensare che la riproduzione audio, emessa dall'osservatore che mi era improvvisamente apparso di fronte, non fosse nient'altro che un bieco stratagemma per attirarmi in una trappola. Eppure non lo pensai neanche per un solo istante. Sapevo che era un richiamo sin dall'inizio. In realtà, non abbracciai la sfera nell'atto rassegnato di abbandonarmi ad un destino di morte, lo feci perché mi sembrava uno degli assurdi gesti che avrebbe potuto compiere Amal. Lo feci perché semplicemente amavo quella voce indipendentemente da dove provenisse. Credetti che quella sfera potesse percepire il mio amore e sapevo che avrebbe funzionato. Sapevo che nonostante Amal mi avesse detto di starle lontano, in realtà stava cercando di chiamarmi a sé. Non avevo ancora chiaro in che misura lei c'entrasse in tutto questo, ma ero perfettamente conscio del fatto che dietro ogni cosa c'era lei.

Seguii la sfera senza indugiare. Non mi posi neanche il problema di pensare di attraversare quel solido muro fingendo che fosse immateriale, lo feci e basta, nella piena convinzione che non avrei trovato alcuna resistenza: fu come attraversare una nube di fumo.

Mi trovai al centro di una stanza, le cui pareti altissime si perdevano verso l'infinito. I muri erano costellati da video-terminali. Erano a migliaia, non c'era alcuno spazio vuoto.

Ogni schermo proiettava a ripetizione una serie indipendente di immagini. Tutte le sequenze erano riprese dal punto di vista dello spettatore. Gettai casualmente l'occhio di qua e di là, riconoscendo le scene che vedevo. Ogni schermo riproduceva scene di vita e di esistenza di ognuna delle mie copie: all'interno del Dedalus, nell'Ade, nei pressi dello snodo internazionale di Parigi, nel paradiso terrestre, sulla vetta della torre, nella biblioteca, nella città di Dite, in questa stessa stanza.

Era la mia storia completa.

Vidi scene brevissime, nelle quali si assisteva all'immediato termine della mia vita. Vidi le innumerevoli scene della strage all'interno dell'hangar. Mi vidi, completamente divelto, in una macchia di sangue e cruore che si sparpagliava largamente sul terreno ai piedi della torre. Mi vidi compiere scelte diverse a discapito dell'ineluttabilità del mio destino. Mi vidi morire, ancora e ancora e ancora, per centinaia, migliaia di volt... e capii. Capii e ricordai.

Ricordai immediatamente quelle scene, tutte quante. Erano reminiscenze distanti, memorie che, fortunatamente, non erano accompagnate da alcun sentimento travolgente, ne sarei stato sicuramente distrutto. Come avrei potuto campire di tale colore di morte e sofferenza la mia povera mente senza soccombere o diventare folle?

Invece di rivivere ognuno di quei singoli istanti, mi fu concesso di vederlo così come si vede un film. Dovevo comprendere il dolore e il destino delle mie copie, delle mie identità, e quello era stato un modo pacato, un gesto dolce da parte di Amal, per permettermi di comprendere, risparmiandomi l'atrocità di assorbirlo direttamente.

DEDALUSWhere stories live. Discover now