CAPITOLO DECIMO - ICARUS

33 8 1
                                    


Rinvenni completamente fradicio, una fitta pioggia ghiacciata mi inondava diagonalmente mentre un vento fortissimo mi sferzava penetrando sotto i vestiti. Ero disteso su una base di duro acciaio, allagata da circa cinque centimetri di acqua piovana. Gli scoli laterali non riuscivano a stare dietro all'intensità della pioggia. Ero circondato da un parapetto circolare del diametro di una ventina di metri. Sopra di me, dalle nubi color carbone, scrosciavano fulmini a catena, pericolosamente vicini, con esplosioni assordanti. Al mio fianco si ergeva un pinnacolo luminescente che pulsava di una luce rossastra a intermittenza. Mi sollevai a fatica scivolando e annaspando. Guardai appena oltre il parapetto. Si vedevano solo le nubi, come se fossi sospeso nell'aria nel bel mezzo di una tempesta. L'atmosfera era pesante e si respirava a fatica, non c'era ossigeno a sufficienza, così come accade quando ci si trova sulla vetta di una montagna altissima. Provai a sporgermi ulteriormente e fui subito colto da un capogiro che mi fece cadere all'indietro. Solo nubi distanti. Non vi erano aperture ne porte, mi trovavo sulla cima di una costruzione umana: una specie di postazione di vedetta. Non vi erano dubbi: ero sulla cima del Dedalus.

Come ero arrivato lì? Doveva per forza esserci una maniera per scendere! Starnutii e cominciai a tossire convulsamente. Quanto avrei potuto sopravvivere in quelle condizioni? Ero stato abbandonato lì a morire, senza possibilità di fuga, non vi era altra spiegazione. Sicuramente sarei morto assiderato o fulminato prima ancora che di fame.

Mentre tremavo gocciolando copiosamente, dalle mie labbra violacee ne fuoriuscì un sussurro: «Amal...». E improvvisamente mi sovvenne ogni cosa: la materializzazione, gli osservatori, il mio cubiculum, la chiave genetica, la biblioteca, Alma 84 e le sue pazzesche affermazioni, l'assurdo viaggio compiuto con Amal, il paradiso terrestre, il salice e il fiume dell'oblio. Quanto di tutto ciò era reale? Che senso aveva ormai per me questa parola: "Realtà".

E infine la verità mi colpì repentina, con uno schianto dentro la mia testa, come se fossi stato elettrizzato da uno di quei fulmini. C'era una logica in tutto questo: qualcosa di perfettamente razionale. L'unica cosa di cui potevo rendere conto in tutto il mio viaggio era la mia propria coscienza, il senso di esistere, tutto il resto sembrava sfuggirmi tra le dita: il Velo di Maya. Vivevo in un mondo di illusioni, un mondo programmato dalla mia stessa consapevolezza di esistere.

Probabilmente avevo veramente compiuto un viaggio verso il Dedalus grazie al Materializzatore. In questo processo la mia coscienza era stata salvata e registrata, quindi contenuta in un qualche sistema appositamente creato a questo scopo. Quella che doveva essere la mia identità, la mia coscienza, il mio Io, era divenuto una serie di informazioni e di dati: un file. Forse questo stesso file era stato copiato e rigenerato in una forma umana che ora si trovava realmente nel Dedalus. Tuttavia IO ERO questo file! Così come non potevo che essere sempre Io in tutte le forme future nelle quali mi avrebbero copiato.

Esistevo contemporaneamente in diverse realtà, ed ero un insieme di dati genetici registrati. Chi poteva credere che un file copiato in un sistema potesse vivere ed esperire come stavo facendo io in questo istante? Come poteva comprendere un computer fino a che punto, o a che stadio dell'esistenza, un qualsiasi essere senziente abbia la possibilità di percepire il mondo che lo circonda e crearsi un'identità? Ecco il supremo errore della tecnologia moderna! Ecco il più grande dei suoi orrori! Erano riusciti a copiare l'Io così come si copia un insieme infinito di zeri e di uno, ma nessuno poteva sapere che, durante questo processo, il risultato che ne sarebbe scaturito non era nient'altro che una forma di vita cosciente e senziente, bloccata eternamente nel Presente: un effimero istante della vita della sua copia originale.

Ero un file e mi muovevo tra ricordi e aspettative, in un mondo che mi ero creato apposta per sfuggire dall'oblio e dal torpore di un contenitore: un hardisk genetico. Non c'era niente che potessi perdere, non c'era niente di reale che potesse nuocermi. Ancora una volta... c'era una sola via.

Mi chiesi solo cosa avrei ricordato e se sarei rinato, oppure se questo sarebbe semplicemente stato un modo per auto-cancellarsi, una sorta di auto-formattazione. Mi vedevo come un'immagine sgranata che in un soffio si dilatava lasciandosi dietro stringhe di codice color rosso sangue.

Mentre riflettevo sulla quella che era la mia prigione di illusioni urlai a squarciagola: «Morti... siete tutti morti! Voi che siete al di là di questa aliena realtà, voi che siete al sicuro e vegliate sulle vostre decisioni, siete morti per me. Ma cosa importa? Io per voi non sono mai esistito, io che difetto del libero arbitrio a voi concesso... ». La mia voce si disperse ovattata dalla pioggia. Attesi. Piansi. Mi calmai, e il mio pensiero indugiò su Amal.

Ti ho inseguito, in un paese d'illusioni. Così vicina e irraggiungibile, tu sei il mio sangue. Ombra della Senna che non è più, volevo affogare nei tuoi flutti. Ti ho cercato, disperandomi in silenzio e tu eri lì: dove le mie orme s'erano appena estinte. La tua immagine mi perseguitava, come uno spettro. Eri le mille donne che mi davano le spalle. Così vicina e irraggiungibile, ombra. Dalle cime di false vedute, la mia vista spaziava su fluorescenti lumi, cercando la luce oscura dei tuoi occhi.

Volai, volai per un tempo infinito e attraversando le nubi e i fulmini intravidi le luci sotto di me così distanti... così belle. Mi allontanavo gradualmente dalla superficie della torre oscura mentre tutto intorno a me svolazzavano aeromobili e piattaforme che riuscivo a cogliere a malapena a causa della velocità folle. Sentivo perdersi dietro di me le lacrime, non sapevo se di tristezza o di gioia, forse erano solo un effetto dell'aria e della pioggia che mi frustava con veemenza.

Volai, volai e sorrisi, mentre tutto si ingigantiva sotto di me. Si sentì un urlo atroce, ma non sapevo se era la mia bocca ad emetterlo, la credevo chiusa. Sentii un rumore assordante e un lungo fischio e ancora una volta, per la seconda volta, tutto intorno a me divenne buio, e, in un silenzio che credetti eterno, ci fu in lontananza una risata cristallina sempre più fievole, sempre più soffocata. Non la riconobbi e prima del nulla aleggiò nel torpore della mente un nome diverso... «Francesca?».


DEDALUSWhere stories live. Discover now