CAPITOLO DODICESIMO - METEMPSICOSIS

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 ...

«... Francesca??... »

«Chi sei?», domandò con curiosità una voce femminile.

«Non ricordo, ma non penso di essere... lui... », rispose la mia voce.

Comparve uno specchio, che sospeso in uno spazio indefinito, una distesa di bianco senza fine, rifletteva il nulla; quasi una cornice vuota che galleggia nella luce.

...

«Francesca», ripeté la mia voce con una nota di rimpianto.

...

Il nome riverberò ripetendosi in un'eco distante, la luce si convertì in tenebre, mentre il suono si allontanava, sempre di più, affievolendosi: una voce nel buio della coscienza, lontana e subito zittita dalle tenebre circostanti. La voce era la mia e il buio era la mia mente che riprendeva forma. Il nero divenne grigio scuro e, lentamente schiarendosi, cominciò a prendere i contorni di un viso che non conoscevo... o forse avevo conosciuto... da qualche parte... in un'altra vita?

L'immagine improvvisamente sbiadì e comparve di nuovo una luce accecante, che spazzò in un lampo le tenebre precedenti. In questo spazio astratto non riuscivo a orientarmi o a trovare una direzione, eppure, da qualche parte, da un punto che istintivamente avrei collocato dietro le mie percezioni, sentii un suono strano: la voce di qualcuno che imita per scherzo un gatto che soffia: «PPfffffffhnn!». Al suono seguì una risatina brillante e divertita, poi, con un tono affettuoso e dolce, sentii la voce femminile di prima, che disse semplicemente: «ti amo!».

Un acuto fischio mi circondò, aumentando di volume fino a divenire assordante. La luce incrementò la sua intensità, accompagnando la sgradevole emissione di quel fischio, fino a diventare insostenibile agli occhi.

Quando ripresi coscienza ero immerso nuovamente nell'oscurità più totale. Sentivo una fitta atroce a livello dei lobi temporali, come un chiodo che penetrava stridendo. La repentina ed esplosiva alternanza tra luci e tenebre mi aveva causato un ritardo nell'assimilazione degli stimoli percettivi. Quando cominciai a udire i suoni che mi circondavano capii di essere precipitato in un inferno.

Tutt'intorno a me sentivo urla disperate e agghiaccianti, parole incomprensibili e lamenti strazianti. Non ero in grado di muovermi. Ero come avvolto e sopraffatto da un caotico divincolarsi di corpi, braccia e gambe. Dovetti combattere per trovare il terreno sotto i piedi.

Ci fu uno schianto. Un rumore meccanico. La vibrazione lenta e graffiante di un motore elettrico si diffuse nell'aria intorno a me, mescolandosi alla disperazione delle voci. Faticavo a respirare e credetti di finire schiacciato dagli esseri che mi pressavano convulsamente in cerca di spazio. In lontananza cominciò a profilarsi una tenue luce rossa. La luce filtrava da un'apertura che si stava lentamente allargando partendo dal basso, seguendo il ritmo del motore: era il gigantesco portone di un hangar che si stava sollevando.

Cominciai a distinguere vagamente i contorni degli esseri che mi stavano schiacciando da ogni lato: erano persone. Tutti noi stavamo lottando disperatamente per trovare uno spazio minimo in cui stare. Ognuno di noi cercava semplicemente di capacitarsi della propria esistenza. Era evidente che stava per succedere qualcosa di terribile. In questo panico di corpi e furia di sopravvivenza, cercavamo inutilmente di fuggire da qualche parte. Non riuscivo a vedere i volti che mi circondavano, ma avevo come l'assurdo presentimento di riconoscerli alla cieca. Il portone si sollevò quasi completamente e dallo sfondo rossastro cominciarono a sciamare all'interno dell'hangar decine di globi neri fluttuanti.

Partirono raffiche di colpi invisibili, sibilando nell'aria, con il rumore di vibrazioni liquide. Le urla inaudite della gente aumentarono di volume assordandomi, mentre vedevo i loro corpi, avvolti da una bioluminescenza bluastra, svanire in piccoli mucchietti di cenere fosforescente. Cercai di svincolarmi all'indietro terrorizzato, finché, lottando e colpendo con spalle, braccia e testa, non mi trovai appoggiato con la schiena nuda su una fredda lastra metallica. Le sfere avanzavano inesorabili mietendo vittime, una dopo l'altra, senza esitazione.

Alzai le mani, incrociandole impotente di fronte al viso e cercando di spingere vigliaccamente, verso un destino di morte, chi mi stava di fronte. Chiusi gli occhi, desiderando con tutte le mie forze che il muro alle mie spalle non esistesse. In che razza di incubo ero finito? Come fuggire da quella follia? Lasciai ogni speranza, sentendomi ad un passo dalla fine.

Il mio corpo cedette improvvisamente all'indietro attraversando qualcosa di fluido. Avevo ancora le mani protese di fronte a me e caddi pesantemente di spalle colpendo con la schiena il duro terreno.

Silenzio.

Non c'erano più grida. Non c'erano più colpi sibilanti nell'aria. Aprii gli occhi.

Vidi una spessa coltre di nubi che si estendeva senza fine. Sentii un tuonare distante, mentre la brillava luce dei lampi, soffocata dal grigiore profondo dei nembi. Sotto di me c'era un terreno sconnesso: ciottoli e ghiaia. Appena oltre i miei piedi un muro di acciaio impenetrabile. Mi sollevai da quella posizione supina, avvilito e impaurito. Tremavo più per lo shock che per il freddo penetrante di quell'ambiente. Ero completamente nudo.

«Ero... io... », dissi, ma il suono della mia voce fuoriuscì strozzato dalle lacrime e dalla disperazione.

Erano centinaia di copie di me stesso! Centinaia di reincarnazioni errate. Copie che non avevano passato i test genetici. Ma io ancora non capivo, poiché avevo dimenticato ogni cosa del mio precedente viaggio e mi chiedevo come fosse possibile tutto ciò. In quale assurdo incubo ero capitato? Dov'era il Dedalus?

Pensavo semplicemente che avrei dovuto materializzarmi presso lo snodo centrale del Louvre, per raggiungere la più famosa metropoli aggregata del mondo. L'unica cosa che volevo era incontrare Amal. Ero lì solo per lei! Invece mi trovavo proiettato in un luogo che forse non apparteneva neanche a questo universo. "Sono morto?", pensai.

Cosa fare? Dove dirigersi? Solo, nudo, frustrato, disperso e avvilito dal terrore, mossi qualche passo tremolante lungo il sentiero che mi stava sotto i piedi. La strada ciottolata si disperdeva nella nebbia in lontananza. Non sapevo dove mi avrebbe condotto. La tetra valle che mi stava di fronte, oscurata dal grigiore delle nubi, declinava verso un bosco di alberi secchi e morti. I rami irregolari si intrecciavano scheletrici senza proiettare alcuna ombra sul terreno. Non c'era anima in quel luogo, non c'era vita. Non c'era un solo essere nel raggio di chilometri.

«Ero io... », ripetevo meccanicamente, mentre i miei piedi nudi si spingevano avanti con passi troppo corti e duri, calpestando i sassi taglienti. Non sentivo dolore. Non sentivo nulla. Come ero riuscito a fuggire da quella stanza, da quella specie di hangar?

L'immagine di un ricordo sfocato, quasi un pensiero subcosciente, comparve inattesa nella mia mente. In questa scena, Amal mi stava trascinando oltre il muro solido di un bagno, mentre rideva divertita. Quando era successo? Ma, soprattutto, come poteva essere possibile una cosa del genere? Forse era la mia immaginazione: una scena prodotta dal desiderio inconscio di darmi una spiegazione... una qualsiasi spiegazione, anche la più assurda!

Abbandonai ogni pensiero e continuai a camminare, svuotato e inerte come un'anima dannata: ero l'ironico esito di una reincarnazione sbagliata.

DEDALUSDove le storie prendono vita. Scoprilo ora