CAPITOLO QUATTORDICESIMO - ADE

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Proseguimmo per svariate ore scalando dune e attraversando i ruderi di quello che un tempo doveva essere un complesso di costruzioni con scopi ritualistico-religiosi. Non mi posi nemmeno la questione su quale potesse essere la religione che vi si professava e di che genere potessero essere i rituali che vi si praticavano. Già partendo dal muro d'acciaio ebbi l'impressione che i luoghi e i paesaggi si susseguissero senza alcuna logica di continuità. Era come se stessi percorrendo un flusso cinetico di immagini che mi apparivano di fronte e ad ogni momento potevo aspettarmi un completo stravolgimento ambientale che andava al di fuori di ogni regola della realtà. Avevo passivamente rinunciato a fare ogni previsione, eppure, dentro di me, questa mia rassegnata accettazione mi riusciva al tempo stesso sorprendente, come se mi rendessi imponentemente conto della sua innaturalezza.

Per tutto il tragitto non vi fu nessuna avvisaglia di pericolo e mi ripresi in maniera sorprendentemente veloce dal precedente trauma. La presenza di quell'amichevole macchina mi dava una certa sicurezza, e da questa ritrovata tranquillità mentale sembravo trovare anche un certo vigore.

Quasi dimentico della mia nudità e di essere ferito, presto anche il mio udito tornò alla normalità. Sembrava esserci una stretta correlazione tra il mio stato d'animo e le mie condizioni fisiche. Mi appariva sempre più evidente che queste ultime dipendessero strettamente e direttamente dal primo. A volte accade che una persona si abitui talmente al proprio disagio che questo cominci improvvisamente a sembrargli meno pesante, ma il mio caso era diverso, non si trattava di un semplice adattamento mentale alle mie condizioni: era qualcosa di molto più profondo. Immerso in questa riflessione ebbi come un flash, una rimembranza della voce di Amal, che mi diceva: "... cerca comunque di non pensare cose brutte, sennò di solito succedono... ", non riuscivo a ricordare nessuna occasione in cui mi furono dette queste parole, ma sapevo che erano da intendersi nel loro senso più letterale: in quel momento non stavo pensando al mio disagio e come diretta conseguenza mi ero praticamente rigenerato, non avevo più nessuna ferita o dolore fisico! Sapevo inoltre che queste mie sporadiche rimembranze erano sempre legate direttamente a ciò che mi stava succedendo. Apparivano nei momenti di bisogno, come se la mia mente, posta di fronte al pericolo o ad esigenze estreme, trovasse la forza di scavare tra ricordi rimossi, al fine di recuperare delle informazioni vitali.

Le dune cominciarono progressivamente ad appiattirsi e i resti pseudo-dorici presto svanirono, lasciando il posto ad ammassi di ferraglia e vecchi macchinari scomposti e semi-arrugginiti.

«Ci stiamo approssimando al canale. Un tempo, tutto questo cerchio era sotto il dominio delle macchine...».

Non capivo a cosa stesse facendo riferimento, ma non me ne preoccupai, mi chiesi solamente se per "canale" intendesse far riferimento a qualcosa di simile al canale magnetostatico del Louvre. Cominciai a sentirmi impaziente e stranamente curioso di sapere quale sarebbe stata la mia prossima meta. Dentro di me non potevo credere che Amal si trovasse in questo luogo. L'idea non mi sfiorò nemmeno. Lei stava di certo al sicuro, lontano da qui. Sentivo che la mia unica speranza di ritrovarla era legata alla mia attuale sopravvivenza e alla possibilità di trovare una via d'uscita da questa utopia.

Il robot riprese il suo discorso: «... nel corso di un tempo incalcolabile, tutta questa zona è stata smantellata dai dannati. Ci siamo costruiti un rifugio e siamo riusciti ad assumere il controllo di alcune di queste macchine. Ora, amico mio, ci stiamo dirigendo proprio verso questo rifugio, un luogo che noi chiamiamo "la città dei dannati"... Ma eccoci al canale!».

Era evidente che il mio accompagnatore, con quel termine, intendeva qualcosa di molto differente alle mie aspettative. Giungemmo ad una sorta di largo canale di scolo a cielo aperto, una conca di cemento della larghezza di circa una cinquantina di metri, attraversata da un'acqua nerastra che odorava fortemente di olio per motori. L'acqua scorreva lenta e melmosa perdendosi in numerosi gangli che scendevano un deserto di rottami. A qualche chilometro di distanza, questo fiume di lordura, entrava in una sorta di discarica, formata da altissime pile di cianfrusaglie elettroniche.

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