0.3 raiting🔸

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Capitolo a raiting arancione.

Furono ore, quelle che passai da sola, legata a quella dannata sedia piena di spine.

Non sapevo quante, non sapevo nemmeno se fossero passate davvero ore, e non soli pochi istanti: a me, sembravano semplicemente l'eterno.

Ma, in ogni caso, fu davvero poco il tempo che ci impiegai per capire che, se fossero tornati, non mi sarei fatta trovare impreparata.

Continuavo a fissare i coltelli, tutti perfettamente ordinati sul telo in velluto scuro, luccicando di tanto in tanto quando colpiti dalla luce dell'unica lampadina: solo uno, però, riuscii a colpire davvero la mia attenzione.

Era un coltello da caccia, dalla punta spigolosa, il taglio liscio e il manico di un vivace color quercia: così simile al mio favorito nei rifugi che non stentai a prendermi un paio di secondi per ammirarlo, quasi fosse un antico resto di una vita che sapevo non avrei raggiunto di nuovo, se non lottando.

Quel coltello doveva essere mio, e, per fortuna, i miei carcerieri non erano stati così accurati da pensare che, una volta guarita dal morso alla mano, avrebbero dovuto legarmi i polsi con maggiore pressione, così da impedirmi ogni movimento.

Ma, invece, l'unica corda che, fra l'altro, mi teneva unita allo schienale, passava poco più sotto delle mie spalle, permettendomi di allungare, se pur di poco, le braccia e muovere le mani.

Dovetti far forza, stringere i denti e sporgermi fin quasi a ribaltarmi sulla sedia stessa, ma poi ce la feci.

Sorrisi, quando finalmente sentii fra le mie dita la fredda lama del coltello, ma non respirai davvero fin quando non sentii tutte le corde cadere a terra, ormai tranciate.

Ero libera, o, meglio, ero un passo più vicino alla libertà.

Non mi curai oltre di nulla, se non dell'unica porta che permetteva l'accesso alla mia cella: ovviamente, era chiusa a chiave.

Forse i lupi non erano così furbi, ma nemmeno degli stupidi.

Infilai la punta della lama nella fessura fra la serratura e il muro, cercando di forzarla, ma, ad ogni tentativo, ero costretta a fermarmi, così da non rischiare di spezzare il coltello e ferirmi.

Un coltello da caccia non era esattamente l'ideale come arnese per una ladra, e, dopo un breve colpo d'occhio, notai che valeva lo stesso anche per il resto.

Magari, avrei potuto provare a sparare alla serratura, ed ero sicura che questo sarebbe bastato, ma il rumore avrebbe attirato l'intero bosco.

Ero in trappola, di nuovo, bloccata da cinque centimetri di legno.

Sospirai, esausta, sedendomi a terra e tenendo la schiena contro il muro, continuando a rigirare la punta del coltello sul pavimento.

Se Garreth fosse stato lì, con me, mi avrebbe dato della debole.

Lo faceva sempre quando non riuscivo a compiere un esercizio o i miei voti non erano brillanti come aveva richiesto: diceva che era per aiutarmi, per stimolarmi, ma io, ogni volta, riuscivo a sentire solo il dolore, uno di quelli che mettevo subito a tacere, proprio come voleva mio padre.

Lui sapeva, sapeva ogni cosa: sia del mio malessere, che di quanto fosse particolare il mio amore per Garreth, e mi diceva di sopportare, perché era giusto così.

Era giusto che sua figlia rispettasse le sue scelte, sia quelle sul suo prossimo marito che su come condurre la sua vita.

Sin dal primo giorno, dal mio primo respiro, lui mi aveva educato a quello, e mi sembrava quasi surreale che solo vedere il sangue di Garreth fosse riuscito a sbloccarmi.

ECLIPSEWhere stories live. Discover now