Capitolo #5

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× POV LUNA ×

Quella giornata di mercoledí al lavoro era passata piú velocemente del solito e non capivo se l’idea mi allettasse o meno. Avevamo tutti fatto le nostre ore di lavoro, io buttata nel reparto “colazione”, ma il tempo sembrava scorrere in modo diverso dalle altre giornate. Probabilmente la mia testa era altrove, pensando al corso di astronomia che iniziava il giorno successivo, e per questo non mi ero resa conto di come tutto, anche la cosa che si odia di piú al mondo, puó sembrare piacevole se pensi ad altro.
Come due mesi fa, anche in quel uggioso mercoledí settembrino erano venuti a fare le loro strane compere i ragazzi che si riprendevo con la videocamera. Appena vidi il ragazzo dai capelli crespi, questa volta con una sigaretta sbilenca tra le labbra, un maglione nero piú grande di lui e gli occhiali enormi, mi venne in mente la sua frase “é il nostro lavoro”. Chissà che lavoro facevano, forse giullari di qualche strano circo e dovevamo cercare di farsi assumere da quello di Moira Orfei. Sorrisi guardandoli passare da uno scaffale all’altro.
Mi concentro sul disporre le fette biscottate sullo scaffale piú alto. Sapevo che il capo mi dava questi lavori solo per mettermi in imbarazzo, perché non avrebbe senso dare un compito del genere alla commessa piú bassa nella storia di questo dimenticato Esselunga. Non avevo avuto neanche l’accortezza di chiedere una scaletta.

Stupida Luna! penso mordendomi le labbra.

Guardo gli scatoloni di fette biscottate di ogni genere, normali, integrali, ai cinque cereali, fette piú spesse, fette meno spesse, marche costose e sottomarche e poi guardo lo scaffale piú in alto, dove devono andare le fette biscottate al farro. Maledetto farro.
Qui a Bologna mangiano troppo salutare per i miei gusti, o per lo meno dovrebbero mettere queste fette biscottate al farro nello scompartimento piú basso dello scaffale.
Avevo calcolato, peró, che se mi ergevo sulla base del secondo scompartimento sarei riuscita ad arrivare fino in cima.
Mi guardo attorno, non volevo nessuno ad osservarmi in questa impresa titanica.
Prendo tre scatole di fette biscottate e salgo quello che sarebbe stato il mio primo scalino. Vacillo un po’ prima di trovare finalmente la stabilità. Sospiro, guardandomi ancora attorno.

Nessuno, perfetto.

Salgo il secondo gradino, mi sbilancio troppo a destra e faccio cadere una scatola dalla pila che avevo in mano. Chiudo gli occhi, aspettando l’impatto col pavimento, il rumore e la conseguente incazzatura del capo.
Ma nulla di tutto ció accadde.
Apro incerta gli occhi. La scatola è nelle mani del ragazzo, quello con gli occhiali e i capelli crespi e me la porge con un sorriso.
Ha uno strano sorriso, di quelli che ti infondono calore e gioia in un secondo e la mia ansia di essere licenziata per un errore stupido si dissipa.
- Vuoi una mano? - mi chiede, sempre col sorriso.
Mi guardo attorno, non vedo ancora nessuno, ma i suoi amici si stanno avvicinando a noi, non voglio che pensino che sia una pessima commessa. Prendo la scatola dalle sue mani e inizio a posizionarle tutte e tre nello scaffale.
- No. - rispondo, forse un po’ brusca.
- Ehi Frank, hai trovato la Nutella farlocca? - chiede uno dei due giullari, quello biondo.
- La sto ancora cercando. - risponde il ragazzo accanto a me, il suo solito tono di voce basso. Poi scompare insieme ai suoi amici.
Frank.
Il suo nome è Frank.
Ho il nome per il protagonista del racconto.

***

Per la seconda volta quel ragazzo di cui ora conoscevo il nome mi lasciava con qualcosa a cui pensare.
Incredibile come uno sconosciuto faccia molto piú di un amico. Soprattutto se non hai nessun amico.
Dopo aver salutato con educazione i miei colleghi e il mio datore di lavoro, mi incammino lentamente verso la mia fermata dell’autobus.
Forse avrei dovuto essere piú gentile, alla fine quel ragazzo non aveva fatto nulla di male nei miei confronti, anzi mi aveva aiutato ben due volte nonostante non mi conoscesse.
Esistevano davvero persone cosí buone sulla faccia della Terra? Pronte a tendere una mano nella tua direzione, anche se non conoscono dove questa direzione li condurrà?
Forse stavo facendo troppo complessa tutta la situazione, alla fine mi aveva solo parlato gentilmente, non aveva fatto nulla di che.
Ma no, lui aveva fatto molto.
Mi stava facendo pensare al mio comportamento, a come gli avevo risposto bruscamente per la seconda volta senza che lui se lo meritasse.
Ero davvero cosí tanto una brutta persona da agire in questo modo? Spero di no.
I miei pensieri sono interrotti da un odore pungente che entra violentemente nelle mie narici.
Alzo gli occhi al cielo bloccandomi e guardo l’insegna del baracchino che illuminava “KEBAB”.
Nel sentire quell’odore il mio stomaco gorgoglia e senza farmelo dire due volte di piú, mi avvicino al baracchino e ordino un kebab con tutto quello che era possibile ordinare. Alla fine a casa mi sarebbe aspettato un tristissimo hamburger e dell’insalata scondita perché l’olio di giú è finito.
Mentre pago ben cinque euro per quel kebab, ma ne valeva la pena, qualcuno mi rivolge delle parole. La voce é maschile, seguita poi da risate.
Capisco che é rivolta a me non solo perché sono l’unica vicino al baracchino, ma anche perché la frase “Ehi grassona, perché ti ostini a mangiare kebab?” può essere rivolta solamente a me.
Alzo gli occhi al cielo e prendo la busta con il kebab sapientemente chiuso nella carta stagnola. Non essendo il canone di bellezza che questa società di merda quasi impone, dato che sono sempre stata abbastanza in carne, sono stata abituata a non reagire a commenti del genere.
Nonostante mi facciano imbestialire questi tipi di atteggiamenti che vanno oltre l’intelligenza umana, cerco di rimanere calma e mi incammino verso la fermata del pullman, a meno di tre minuti dal baracchino.
Ma quando uno dei ragazzi mi schernisce di nuovo, non riesco piú a distinguere cosa é bianco e cosa é nero.
- Ehi, stiamo parlando con te scrofa! - mi urla contro.
Mi blocco immediatamente.
Lascio a terra la borsa e la busta del kebab e senza pensarci mi fiondo verso i ragazzi col pugno alzato, le guance in fiamme e gli occhi pieni di rabbia. Gli avevo dato una possibilità, ma alla seconda non sono riuscita a trattenermi.
- Fighj d’ butt.... - ma non riesco completare la frase rigorosamente in dialetto perché un altro ragazzo, casco in testa e baffetti scuri, mi blocca il pugno a mezz’aria guardandomi interrogativo.
- Cosa cazzo stai facendo? - mi chiede guardando prima me e poi i ragazzi che erano rimasti colpiti dal mio comportamento.
- Vengono da giú e si permettono anche di aggrediti. Dovrebbero ritornare a casa loro questi meridionali. - risponde uno di loro, quello che mi aveva schernito per prima.
Rimango a  bocca aperta, senza possibilità di replica.
Guardo il ragazzo col casco, per poi ritornare alle buste, prenderle e incamminarmi ancora verso la fermata.

Furiosa, arrabbiata, i miei piedi sbattono su ogni pietra che incontro sulla strada, calciandoli con tutta la rabbia che avevo in corpo.
Pensavo che sarebbe stato piú facile qui a Bologna sopportare i miei attacchi, e invece sembrava essere ancor piú difficile.
Poi mi si presentavano davanti sempre questi geni del male e mi chiedevo se non li avessero tutti riversati qui solo per me.
- Vaffanculo! - grido calciando l’ultima pietra prima di sedermi sulla panchina della fermata.
Mi mordo le labbra fino a farle diventare sangue, quindi passo a massacrarmi le pellicine delle dita vicino alle unghie, ma esce del sangue anche da lí quindi lascio perdere.
Cerco di calmarmi, non ho con me il mio inalatore, quindi non riesco a trovare il modo adatto.
Andavano via cosí, senza che glielo chiedessi, ma quegli attimi dopo aver spaccato tutto erano i peggiori, il cuore batteva piú forte che mai, mi sentivo frenetica, i denti battevano sulle labbra, le mani non riuscivano a stare ferme e mi veniva quello strano tic alle gambe.

Pochi minuti dopo la mancata rissa ho visto il ragazzo col casco andare via con la moto, per poi scoprirlo a guardarmi mentre percorreva la strada.
Lo guardo malissimo, ovviamente.
Probabilmente lui voleva anche aiutarmi, ma non riuscivo a non pensare al suo silenzio dopo le cose che avevano detto quegli stronzi.

Qualcosa picchia contro le mie gambe. Guardo giú e vedo un cagnolino nero, piccolo e solo, con le orecchie basse e che trema, non sapevo se di freddo o di paura.
Picchia la testolina contro le mie gambe e quando capisce che aveva attirato la mia attenzione mi rivolhe il suo sguardo azzurro triste e malinconico.
- Ehi piccolino, che ci fai qui tutto solo? - lo prendo in braccio, anche se con timore.
Non ho grande stima nei cani, ma solo perché uno mi morse quando ero molto piccola e da allora ho sempre avuto una paura fottuta di tutti i cani.
Ma questo, come si fa ad avere paura di un cucciolo?
Lo prendo in braccio e lo adagio sulle mie gambe, lui di tutta risposta mi lecca la mano riconoscente.
Sorrido.
- Hai fame? - chiedo e lui mi guarda interrogativo, il muso bagnato e la lingua da fuori.
Guardo la busta del kebab.

Posso dare il kebab a un cane? pensai, ma poi decido di esserne completamente sicura, quindi cerco informazioni su internet col cellulare.
Non c’é nessuna informazione a riguardo, quindi meglio non rischiare.
Un rumore mi riporta alla realtà e vedo in lontananza il mio autobus che si avvicina illuminato alla mia fermata.
Guardo di nuovo il cagnolino.
E decido.
Quando l’autobus si ferma davanti a me, salgo sopra alla volta della mia casa con un cagnolino in braccio.

***

Mangia la carne del mio hamburger quando esco dal bagno dopo una bella doccia calda.
Avevo cucinato la carne sbriciolata e l’avevo messa in un piatto accanto a dell’acqua e il cagnolino ci si era subito fiondato.

Povero piccolo, chissà da quanto tempo non mangiava.

Mangio anche io il mio kebab un po’ freddo, ma comunque buono e mi dedico alle ricerche basi per capire come accudire un cane.
Scopro che era un incrocio con un labrador (il cane di Antonella Clerici, ecco dove lo avevo visto!) e che dovevo portarlo minimo tre volte fuori casa per i suoi bisogni. Dovevo comprare il cibo per cani giovani, fare il pedigree e fargli mettere il microchip.
Una cosa da niente, diciamo.
Ma è dolcissimo.
Sono sul mio divano letto, col computer portatile sulle gambe, quando lui sale vicino a me e decido di abbandonare le mie ricerche per accarezzarlo.
Ha dei denti piccolissimi con i quali pensa di farmi male mordendomi, ma io sorrido ogni qualvolta non ci riesce. 

Sono in grado di accudirlo a dovere? Si, devo farlo.

Si stanca subito delle mie coccole e si addormenta ai piedi del letto.
Ritorno al mio computer. Sul desktop c’è il solito file dei racconti. Mi ricordo del ragazzo del supermercato e del suo sorriso caloroso.
Frank.
Guardo il cagnolino. Lui alza leggermente il muso, guardandomi con i suoi occhi azzurri.
Sorrido.
- Ti chiamerai Frank. -

Il filo rosso della ValleDove le storie prendono vita. Scoprilo ora