Capitolo #10

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+ SAM POV +

Le giornate si trascinano lente, ritmiche, impegnative, con così poche pause da farmi arrivare a fine settimana stremata e con solo tanto, ma tanto sonno. Eppure non mi fermo nemmeno la domenica: la mattina sveglia a un orario decente, colazione, studio e pranzo, lavoro, cena e letto per poi ripetere tutta la settimana da capo. L’unico momento della giornata in cui riesco a staccare la testa da tutto e a concedermi un po’ di tempo è l’ormai abituale caffè che Nicolas e io ci prendiamo almeno una volta al giorno tra una lezione e l'altra: una volta offro io, quella dopo offre lui, e ogni tanto mi concedo anche una pausa sigaretta prima che il professore di turno decida di cominciare a spiegare a raffica formule matematiche e la loro applicazione.
“Sto morendo dal sonno” dico sbadigliando. Richiudo la bocca e apro gli occhi inumiditi, ritrovandomi a osservare il panorama pacato del cortile dell’università, dove stuoli di ragazzi passeggiano e parlano di un po' tutto, riempiendo di un chiacchiericcio continuo e monotonale l’abitacolo. Da dove sono io - un balconcino al primo piano - non si è troppo in alto da soffrire di vertigini, ma abbastanza da sentirsi invisibili restando in silenzio sopra quel mare di teste.
“Ancora la caffeina non ti ha fatto effetto” commenta Nicolas da dietro gli occhiali da sole mentre invia un messaggio. Il cielo è terso, e la giacca di pelle quasi mi pesa addosso, ma non ci rinuncerò mai.
“Ancora no” dico, abbozzando un sorriso. “Mi sto addormentando sul parapetto... e, se dovessi cadere, incolperebbero te di omicidio premeditato. Magari troverebbero del sonnifero nel caffè". Porto la sigaretta alla bocca e tiro mentre Nicolas protesta rumorosamente.
“Non mi incastrerai in questo modo!” ribatte lui, puntandomi contro un dito mentre la sua, di giacca, gli pende dal braccio.
“Potresti dire che mi sono suicidata.”
“Volevi una scusa credibile per non seguire Fisica II senza sentirti in colpa.”
Faccio a Nic un’espressione compiaciuta. “Perché non hai preso giurisprudenza?”. Faccio un altro tiro.
“E perché non l’hai fatta nemmeno tu?” mi risponde lui, dopo un attimo di silenzio passato a cercare una risposta a effetto. Nulla, non ce l’ha fatta.
Arriccio il naso in una smorfia, pronta a buttarmi a capofitto nella spiegazione della miriade di motivi per cui giurisprudenza non fa per me, ma proprio per niente.
“Sai” comincio, dandomi una finta aria da ragazza altezzosa e scatenando l’ilarità di Nic, “io non ho l’animo da giurista! Sono più...”
“Una donna con l’animo da letterata.”
Ed eccolo apparire alle spalle di Nic, con quel suo sguardo sorridente che mi raddrizzava il mondo fino a poco tempo fa, e che sembrava mi dicesse “tranquilla Sam, va tutto bene”. Quello sguardo in cui, non so come, riuscivo a vedere del tenero, dei sentimenti che - n'ero certa - non provavo solo io.
Anche ora mi sta sorridendo rassicurante.
Il sangue mi si congela nelle vene. Nic si gira alla ricerca della fonte di quelle parole, e trova Bruno alle sue spalle. Si scambiano uno sguardo, uno confuso, l’altro arrabbiato, quasi geloso - geloso di cosa, poi, io non so. Ha tagliato i capelli da poco, e piccoli ricci gli coprono soffici la testa, mentre anche un accenno di barba e baffi sembra voler ricrescere.
Sbatto le palpebre, cerco di connettere quei due neuroni che mi sono rimasti e provo a dire qualcosa.
“Che ci fai tu qui?”
“Lezione. Studio qui anche io... no?”
Annuisco. Si crea un silenzio imbarazzante.
“Quindi...” ricomincia lui, passando lo sguardo da Nicolas a me con fare indagatore.
“Quindi vado a lezione perché è tardi e non ho tempo da perdere” dico d’un fiato, guardando a malapena l’orario sul cellulare. “Vado” faccio anche a Nicolas, afferrandolo da un braccio per far toccare le nostre guance in segno di saluto mentre, con le labbra, schiocco un bacio al vento.
Giro sui tacchi e me ne vado. Accendo lo schermo del cellulare e comincio a cercare l’orario delle lezioni per sapere in quale aula dovrò andare. Sento distrattamente dei passi dietro di me: Bruno mi sta seguendo, lo so; la sola domanda è: perché?
“Cos’hai da fare a pranzo?” dice lui, affiancandosi a me. In pochi passi mi ha raggiunta, il suo maglioncino nero che mi segue a pochi centimetri di distanza.
Sbuffo e roteo gli occhi, spengo il cellulare e lo rimetto in borsa. “Tornare a casa a mangiare” gli dico, a denti stretti e senza fermarmi.
“E se mangiassimo fuori?”
Due falcate ed eccolo lì, davanti a me, a chiedermi col suo sorriso gentile di passare un po’ di tempo insieme. “Ho bisogno di parlarti” conclude, e i suoi occhi cervone si illuminano, il suo sorriso gentile tentenna un po’ sotto il peso amaro di chissà quale confessione. Ci penso un attimo su, sguardo basso, poi torno a guardarlo: è bello, bello come il sole, alto e massiccio, con le spalle larghe e un sorriso dolce e rassicurante. È quel tipo di ragazzo che ti fa sentire protetta e al sicuro, come se non avessi bisogno di nient'altro oltre lui, perché lui può darti tutto.
Sbuffo, ci penso e ripenso, e alla fine cedo. “Va bene”. Non dovrò dargliela vinta per forza, un pranzo non significa nulla.

Il filo rosso della ValleDove le storie prendono vita. Scoprilo ora