Capitolo 4 | Il segreto della piccola città

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Dopo una veloce cena a base di sandwich Noah arrivò in camera sua e si sfilò di dosso il giubbino di jeans che aveva indossato per tutta la giornata. Con un gesto secco ne sfilò le maniche e lo lanciò contro la sedia della scrivania già piena di magliette di ogni tipo. Fu sorpreso dall'udire un rumore sordo diffondersi dopo il lancio degli abiti contro la struttura in ferro della sedia. Pensò a cosa avrebbe potuto provocare quel rumore, distorse la bocca in una smorfia di perplessità e poi si avvicinò con le sopracciglia tese verso il basso e strette fra loro. Riprese in mano la giacca e frugò nella tasca destra. La sua mano pescò il cellulare di Phil Burch. Noah aveva dimenticato di ridarglielo dopo aver risolto il problema chiamate: una disattenzione non da poco. Per quanto ne sapeva, il dottor Burch avrebbe potuto pensare di essere addirittura stato derubato da lui! Non poteva permetterlo, in fondo era stato gentile. Lo aveva salvato da Adam e dal pestaggio, lo aveva riaccompagnato a casa, parlato con sua madre, spiegato i motivi del ritardo e il perché viaggiasse sull'auto di un perfetto sconosciuto non menzionando nemmeno il pestaggio. Non poteva permettere che il dottor Burch pensasse di essere stato derubato. Se avesse chiesto ai suoi il permesso di uscire glielo avrebbero negato. Dopo cena, salvo uscite collettive, non si usciva di casa. E sua madre lo appoggiava interamente, anche per non udirne le monotone sbuffate quando non si faceva a modo suo. Erano quasi le nove di sera e il sole non aveva ancora lasciato spazio al buio: Noah consultò il cellulare e notò che Phil aveva sincronizzato i sensori di posizionamento dello smartphone con quello dell'auto. Forse non era stata una sua idea: in fondo aveva capito come il dottore non avesse idea di cosa fare, con uno smartphone in mano. Forse una premura da parte di un parente. Sul cellulare, nell'app dedicata al GPS, era possibile risalire all'esatta posizione dell'auto di Phil, una cosa utile qualora la macchina fosse stata rubata, ma che in quel momento serviva a Noah come strumento per ritrovare il dottore. Noah decise di svicolare fuori dalla finestra e di raggiungere il posto segnato sul cellulare: distava solo dieci minuti di camminata. Avrebbe restituito il telefono a Phil, lo avrebbe ringraziato e sarebbe corso all'indietro. Sarebbe tornato a casa prima di cena e nessuno lo avrebbe mai scoperto, in fondo nessuno lo disturbava mai e non avrebbero controllato la sua presenza. Dopo essere uscito dalla finestra e camminato sulla tettoia, Noah spiccò un balzo consistente, di almeno un paio di metri, per raggiungere la terra ferma. Iniziò a correre con il cellulare di Phil in mano, mentre il sole rossastro accarezzava la piccola cittadina di Cove Bay accogliendo la notte.

***

Phil guardò il suo lussuoso orologio da polso. Nell'oscurità l'oro sembrava luccicare ancor di più e il quadrante produceva un incessante ticchettio che sembrava scandire le sue emozioni. Un regalo di suo padre che portava sempre. Glielo aveva regalato quando si era laureato in medicina e aveva impiegato tutti i propri risparmi per donargli qualcosa che, secondo le intenzioni, gli sarebbe rimasto per sempre. Suo padre, a ottant'anni, aveva dato fondo a tutto ciò che aveva risparmiato per regalargli quell'orologio e lui non voleva toglierselo in nessun modo.

Neanche quando si sarebbe suicidato.

Le lancette segnavano le otto e dieci di sera. Phil era uscito dal vialetto di Noah Powerick ed aveva svoltato a destra, poi si era introdotto nel bosco e lì aveva raggiunto la parte più lontana, quella in discesa, che non veniva mai perlustrata da nessuno. Giravano strane voci, su quella zona. Nessuno vi passava mai, se non la polizia quando passava al setaccio la città con i canti antidroga. Era una zona losca, trascurata, con l'erba alta fino al ginocchio e una discesa che si allungava quasi verso il buio. Alla fine della discesa stazionava lugubre un cancello in ferro battuto risalente a molti anni prima. Le piogge l'avevano rovinato a tal punto che sembrava ancor più vecchio di quanto fosse. E, dietro quel cancello, c'era la famosa Villa Jushet.

Chi non abitava a Cove Bay non aveva la più pallida idea di cosa fosse Villa Jushet. Chi vi abitava, invece, ne evitava accuratamente il discorso per non entrare in conversazioni dotate di variabili del tutto inesplorate che non era capace di spiegare con raziocinio. Quando i bambini chiedevano ai genitori informazioni su quella vecchia leggenda cittadina, questi sviavano in modo netto il discorso per evitare di spaventare i propri figli e assumevano un comportamento distaccato che incuriosiva i piccoli ancor di più. Poi li si distraeva: un gelato, un gioco. Meglio spendere denaro in cose futili piuttosto che parlare di Villa Jushet. Le espressioni dei genitori diventavano truci e misteriose, nessuna parola usciva dalle bocche rimaste serrate come saracinesche e il silenzio sulla Villa (rigorosamente con il carattere iniziale scritto in maiuscolo su ogni libro dedicato alla storia cittadina) continuava ad alimentare fra le persone agonia e paura.

Il Segreto di Villa JushetWhere stories live. Discover now