Capitolo 13 | Dialoghi

202 17 2
                                    

Phil, Margareth e Noah furono fatti rientrare nelle proprie striminzite e sporche celle. Il terriccio umido che sostava sotto di loro rendeva la permanenza ancora più dura: se provavano a sdraiarsi a terra per rifiatare un momento, la fanghiglia penetrava loro nelle orecchie e arrivava ad insinuarsi fra i capelli. In fondo alla cella un piccolo topo rosicchiava qualcosa di non identificato tenendolo fra le zampette e fissando i tre presenti con aria guardinga, come se fosse pronto a sferrare un attacco. Phil fissò il suo orologio da polso e nella penombra poté scorgere le lancette fosforescenti che gli permettevano di controllare al buio anche nell'oscurità: le tre e mezza del mattino. Erano ormai più di due giorni che lui e Phil erano rinchiusi in quella villa ed erano ormai circa ventiquattr'ore che Margareth faceva loro compagnia. Mentre Noah, esausto, si era appoggiato al muro e aveva iniziato a lasciarsi andare per la stanchezza eccessiva, Margareth se ne stava in un angolo della cella in silenzio, ad occhi spalancati, a fissare il vuoto immerso nel buio dinanzi a lei. Phil provò ad instaurare una conversazione, anche basandosi sul colpo che lei aveva ricevuto qualche ora prima da Karenina. Quest'ultima aveva colpito Margareth dritto in testa con il calcio di un fucile e lei era rotolata a terra come una marionetta a cui avevano tagliato i fili.

«Come va il dolore?».

Margareth sorrise. Un sorriso malinconico e sgraziato che ebbe però l'effetto di produrre tenerezza in Phil.

«Ho ancora qualche piccolo fastidio. Per esempio, mi gira la testa».

«Dovresti riposare».

«Non se ne parla, devo portarvi fuori di qui».

Phil sospirò. «Il fatto che tu sia un'agente di polizia non cambia le cose: usciremo da qui sani e salvi una volta che avrò operato Oleg. E poi dimenticheremo questa storia, la metteremo in cassetti della nostra memoria e la pianteremo di biasimarci per qualcosa».

«Perché volevi suicidarti, Phil?» gli domandò.

L'interrogativo di Margareth lo mise in seria crisi e lo mandò in confusione. Un blackout mentale, l'avrebbe definito qualcuno. Phil scrutò la porzione di buio pesto dinanzi alla cella e vagò con la mente. Avrebbe potuto inventare scuse e fare digressioni filosofiche su quanto la vita non rispettasse le aspettative di chi vi era protagonista, ma decise di dire la verità, una verità semplice e su cui nessuno avrebbe potuto ricamare trame mentali.

«Perché non ero felice» si limitò a dire.

«Non eri?» chiese Margareth. Poi smorzò un altro sorrisetto. «Oh, vuol dire che ora lo sei. Qui, in questa magnifica cella, con un fantastico topo che ci fissa per provare ad attaccarci e due psicopatiche che ti chiedono di operare un altro folle».

Phil rise. Era la prima volta che lo faceva da...non sapeva nemmeno da quanto tempo non rideva di gusto. Era spiritosa. Era intelligente. «No, non sono felice nemmeno adesso, ma...».

«...ti stanno dando un motivo per andare avanti» completò Margareth. Poi fissò Phil. «Non è vero?».

Phil annuì. «Qual è la tua storia? Perché a volte sembra che tu stia pensando a qualcosa molto intensamente».

«La mia storia, eh? Vediamo...una vita passata a fare l'agente di polizia, ma anche ad essere umiliata da tutti in quanto donna. Una vita passata a svolgere il doppio dei lavori dei miei colleghi uomini per poi raccogliere la metà dei frutti. Un matrimonio all'apparenza felice con l'unico uomo capace di darmi un affetto che i miei non hanno saputo darmi, poi la violenza proprio da lui, l'unica persona che credevo di amare».

«Mi dispiace molto, Margareth. Ti picchiava?».

Lei ricacciò indietro un pianto di ira e annuì. «Ogni giorno».

Il Segreto di Villa JushetDove le storie prendono vita. Scoprilo ora