Capitolo 6

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INTIMITÀ E RIVELAZIONI

Raccolgo il mio vestito dalla morbida moquette e faccio per indossarlo. Chester, con ancora la camicia aperta sul petto, si avvicina a me per aiutarmi con la cerniera e mi posa un bacetto sulla spalla.

Ho bisogno di una boccata d’aria, penso tra me e me. Vorrei andare via da qui e fumare una sigaretta all’aperto. Prendere una pausa da Chester.

Prima, mentre raggiungevamo questa sala, avevo notato delle scale, che penso proprio portino ad un terrazzo, in cima al grande palazzo a vetri della Chester Publishing.
«C’è un terrazzo qui su, vero?» chiedo conferma ad Alex.
Lui annuisce.
«Avrei bisogno di una boccata d’aria, posso andarci?» chiedo, finendo di allacciarmi i sandali.
«Si, certo.»
«Inizio ad andare, ok? Raggiungimi su...» dico, con un accenno di sorriso, mentre prendo dalla borsetta una sigaretta.

Esco dalla stanza, salgo le scale, apro la porta che dà sul terrazzo e respiro più volte a pieni polmoni.
La vista da quassù è meravigliosa, da togliere il fiato.
Brightintown sembra così calma e silenziosa, costellata da una miriade di piccoli puntini luminosi.
È proprio qui che vorrei essere.
Qui ed ora.
È una delle poche volte nella mia vita in cui mi attraversa la mente un pensiero del genere.

Prendo il cellulare dalla borsa e scatto una foto alla vista, come se ciò potesse conservare per sempre questo piccolo, emozionante e sfuggente momento.

E per un attimo mi pento di essere scappata di corsa dalla sala di Mr. Rogers, da Chester, dalla vicinanza del suo corpo nudo, accanto al mio.
L’ho fatto perché, beh… a volte la troppa intimità sa farmi davvero paura.

Devo aver inconsciamente sviluppato questa strategia difensiva col tempo: se tu vai via per prima, non sentirai quella orrenda sensazione di chi, da steso accanto a te, si alza e se ne va. Quello spietato senso di abbandono.
Fuggire per prima è diventato per me un riflesso naturale, un’autodifesa.

«Ho pensato avessi voglia di un altro drink...» sento la sua voce alle mie spalle.
Mi volto e lui mi porge un altro Sidecar. È ancora più bello così, con i capelli un po’ scompigliati.
«Grazie» sorrido afferrando il bicchiere.

Resta in silenzio di fianco a me, non dice una parola. Sorseggia il suo cocktail.
«Che c’è?» non riesco a fare a meno di domandargli. «Non parli più?».
Sorride con lo sguardo perso nel vuoto, dinanzi a sé.

«Sto pensando...»
«A che cosa stai pensando?»
«A tutto e a niente…» glissa lui.
«Mmmh… e quindi adesso non andremo più a cena, domani», i miei pensieri si trasformano in parole senza neanche chiedermi il permesso.

«Sì che ci andremo», dice lui, volgendo lo sguardo su di me, «so quello che pensi, Valentine: “adesso che ha ottenuto quello che voleva, non ha più bisogno di portarmi a cena”. Ti ho capita sai?».
Abbasso gli occhi, facendo una smorfia con le labbra.
Colpita e affondata.

«Ho capito l’idea che ti sei fatta di me», continua poi, «ma io ti dimostrerò che ti sbagli.»
«Mah, vedremo…» dico alzando un po’ le spalle, mentre inizio a chiedermi se io non mi sia davvero fatta un’idea sbagliata di quest’uomo.



«Penso che il carattere di ognuno di noi cambi nel corso della vita. Vedi, oggi mi reputo una persona estroversa, sto bene con gli altri… ma alle superiori ero un ragazzino molto introverso».

Non faccio molta fatica ad immaginarlo così. Ancora oggi ha conservato parte di questo suo essere, ma forse lui non lo avverte.
Lo lascio continuare senza interromperlo.
«Ero grassottello, con l’acne sul viso, non ero proprio il tipo che andava per la maggiore con le ragazze... tanti miei amici piacevano molto più di me».

Sorrido leggermente, immagino quel ragazzino chiuso ed insicuro per via del suo aspetto fisico e un moto di tenerezza mi spingerebbe ad abbracciarlo.
Ma oggi Chester è così freddo, razionale, controllato e sicuro di sé, che di certo non sembra aver bisogno di un abbraccio.

«Crescendo molte cose sono cambiate», prosegue, «adesso sono sicuro di me, e in questo il lavoro mi ha aiutato tanto…»
«E’ normale che sia così, ti ha aiutato a sviluppare l’autostima...» dico annuendo.
«Anche il confronto con mio fratello mi stimola molto, è la persona che stimo più di ogni altra, il mio mentore… Beh, adesso sì», conclude, «adesso mi reputo davvero una persona fortunata…».

Il suo sguardo vaga ancora un po’ nel vuoto dinanzi a sé, come se seguisse qualche pensiero inespresso, poi i suoi occhi tornano su di me e incontrano i miei.
«E’ strano», dice, «con te parlo sempre tanto, riesco ad aprirmi…»
«Ho seguito un corso base di psicologia al College, sarà per questo…» scherzo io.
Sorride, ed ecco che quelle piccole e bellissime rughe del contorno occhi tornano ad ammaliarmi.

Poi continua: «Di solito mi capita che, dopo il sesso, non vedo l’ora di riportare la ragazza a casa, non c’è dialogo, non resta niente», mi rivela, «con te, invece, è diverso…».
Resto in silenzio, non riesco a trovare le parole. Non mi aspettavo questa piccola confessione.
Sarà vero? In fondo è ancora qui a parlare con me… e questa mi sembra una prova delle sue parole.

«E quindi, ti reputi una “persona fortunata…”» riprendo il discorso precedente, per porre fine al mio silenzio imbarazzante.
«Beh, sì… mi capita spesso che alla fine le cose vadano come mi piacerebbe che andassero, senza che io debba sforzarmi troppo» spiega lui.

«Hai qualche desiderio che ancora non hai realizzato?» gli chiedo.
«Mmmh…» ci pensa solo per un attimo. «Io non ho desideri» ride. Poi prosegue: «Preferisco analizzare quello che già ho a disposizione ed individuare quali obiettivi posso raggiungere utilizzando al meglio ciò che già posseggo…»

«Questo non è “avere un desiderio…”» preciso io, con una punta di delusione. «La verità è che tu non credi nel potere di desiderare qualcosa e ottenerla, di avere un sogno…» concludo scuotendo la testa.
«Hai ragione» sorride lui.
«Sei concentrato su di te, sulla tua realizzazione, sul tuo lavoro, ma non c’è qualcosa che ti faccia davvero battere il cuore… ammesso che tu ne abbia uno» sentenzio con una piccola smorfia.

Lui continua a guardarmi di sbieco con un lieve sorriso sulle labbra.
«Sai, Valentine», dice dopo un po’, guardandomi fissa negli occhi, «penso che tu sia davvero l’unica donna che mi abbia capito davvero».



Oggi si è chiusa per me la seconda settimana di stage alla Chester Publishing.
Sto trascorrendo il mio venerdì sera a casa, in solitudine, avvolta in una bizzarra tuta in morbido pile, con le sembianze di un panda, cercando di superare il fatto che Chester non mi ha più portata a cena fuori ieri sera.
Prevedibile.

È sparito senza darmi nessuna spiegazione, senza neanche mandarmi due righe virtuali per disdire il nostro impegno. Niente di niente.
Che grandissimo stronzo impenitente.

Guardo distrattamente un film su Netflix, ma i miei occhi non fanno altro che fissare l’ultimo accesso WhatsApp del disperso.
La scritta online appare di frequente sotto il suo nome e la sua foto, lì accanto, pare fissarmi con sguardo furbetto e sornione.

Tutto questo mi trascina in vorticosi e totalmente inutili pensieri.
Con chi chatta?
Non mi pensa nemmeno?
Che fine ha fatto?
Avevi ragione su di lui, ripete la voce della mia coscienza. “Ti dimostrerò che ti sbagli”, “ho capito l’idea che ti sei fatta di me, ma non è così” …Baggianate, ti ha mentito! È come tutti gli altri: voleva solo portarti a letto, mia cara.

Più ripenso alle sue parole e ai momenti che abbiamo passato insieme, più mi sembra tutto così assurdo… ma non ho la forza di cercarlo, non adesso, soprattutto perché domani sera lo vedrò.
Non potrà certo perdersi la grande festa aziendale di Natale… e si dà il caso che Big Chester abbia invitato anche me.

Lancio il telefono lontano e provo a concentrarmi sul mio film.
Perché fanno tutti così?
Ma niente paura: domani gli dirai dritto in faccia tutto quello che pensi.

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