Capitolo 19

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RIFIUTARE ED ESSERE RIFIUTATI

⎯ Alexander

«Valerie, ti ho detto di non chiamarmi» riesco appena a rispondere in tempo.
«Alex, finalmente hai risposto», dice con la voce spezzata dal pianto, «perché fai così? Che cosa ti ho fatto?»

Prendo un respiro profondo, non so minimamente come si gestisca una donna che piange al telefono.

«Tu non hai fatto niente, è solo che non sono uscito con te perché cercavo una relazione. Siamo stati bene, ma io voglio stare da solo. Te l'ho già detto.»
«Perché non mi dai almeno una possibilità? Rivediamoci, parliamone... Dove sei? Ti raggiungo.»
«Adesso ho un impegno, non posso. E io non ho più nulla da dirti, ti ho già detto tutto quello che penso.»
«Alex, aspetta io...»
«Ne abbiamo già parlato, credevo di essere stato chiaro, ma forse devo ripetermi: non voglio più che mi cerchi, Valerie. Devo andare» dico tutto d'un fiato e stacco.

Negli ultimi due giorni deve avermi fatto almeno quaranta telefonate, non so più come fare con Valerie.
Mi do una rapida occhiata allo specchio, approfitto per lavarmi le mani ed esco dal bagno, diretto verso il tavolo.

Rientrando in sala, mi guardo attorno spaesato. Dov'era il tavolo? Non riesco a vedere Eve.
«Ehm, signore... sono desolato», mi intercetta il cameriere che poco prima ci aveva fatto accomodare, «penso che la signorina sia andata via. L'ho vista uscire in tutta fretta».
Per un istante mi manca il respiro.

Riesco a riconoscere il tavolo dove eravamo seduti, mi avvicino e sul tovagliolo spiegazzato di Eve c'è una scritta fatta il rossetto rosso che aveva sulle labbra: "Scusami".

Sbatto ripetutamente le palpebre.
Con veloci movimenti automatici, lascio una banconota sul tavolo ed esco, evitando tutti, senza dire una parola.

Entro in macchina, mi metto le mani sulla fronte e poi le sbatto sul volante.
Dove diavolo è finita? Mi chiedo.

È la prima volta che mi succede una cosa del genere, che una situazione sfugge al mio controllo in questo modo. Mi guardo intorno come se cercassi una soluzione, ma nella testa sento solo un assordante vuoto, provo una rabbia inspiegabile. Voglio solo sapere dove è andata e perché. Voglio parlarle.

Prendo il telefono per chiamarla, ma mi fermo.
Che cosa sto facendo? Mi ha lasciato al tavolo di un ristorante, da solo, come un coglione. No, non posso chiamarla. Del resto, se anche lo facessi, sono certo che non mi risponderebbe. Che cosa è successo? Perché l'ha fatto?

Metto in moto e parto a tutta velocità in direzione di Mellport, mentre nella testa ho una sola, assillante domanda: dove sei andata, Eve?


Tasto il comodino ancora addormentato e spengo la sveglia. Non ho chiuso occhio fino a notte fonda, avrò dormito solo un paio d'ore.

Mi alzo e mi fiondo in doccia. Il getto d'acqua fredda mi aiuta a svegliarmi. Mi asciugo, non ho voglia di farmi la barba e non la faccio, mi vesto svogliatamente e in meno di venti minuti sono fuori di casa.

Guido fino a Brightintown, ascoltando la voce di Dermot Kennedy, adesso sta cantando "What have I done".

Sono le sette, in perfetto orario, prendo il borsone dal cofano della mia Tesla ed entro in palestra.
«Alex! Giornataccia, amico?» mi chiede Steve, all'ingresso.
«Ma no, è solo lunedì!» dico, salutandolo con la mano.

La sala attrezzi a quest'ora è vuota, come piace a me. Collego gli auricolari bluetooth al telefono e apro la mia solita playlist, premo play e inizio i miei esercizi a ritmo di "Smoke on the water" dei Deep Purple.

Bitter LoveWhere stories live. Discover now