5: nastro n.2, 25 Maggio 1997.

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L' A R T E
D I
U C C I D E R E

Dove eravamo rimasti? Oh, sì.

Martha, alla fine, m'aveva lasciato. Non ne poteva più. Non ne poteva più perché avevo smesso di fare quelle piccole cose che mi aveva insegnato a fare. A passare i weekend come piacevano a lei. Forse sapeva che non poteva spalmarmi ad adattarmi alle convenzioni del ragazzo perfetto, quello da cui avrebbe potuto ricavarci un marito.

La relazione durò un paio d'anni. Ero giovane, non potevo essere all'altezza dei suoi standard. Un ragazzo di diciassette, diciotto o diciannove anni non sa nemmeno che vuole fare da adulto, figuriamoci comportarsi come l'uomo perfetto da sposare.
Così iniziai nuovamente a frequentare i bar nei weekend, rendendolo un po' meno ovvio. Diciamo che agivo alle sue spalle, cosa che imparai a fare discretamente nella vita. No, non ad ubriacarmi, ad agire alle spalle di chi amo, ad ingannare le persone che facevano parte della mia vita.
Mi chiedo se ingannavo persino me stesso, cercando di plasmarmi per far felici gli altri.

Quando finì non piansi. Non mi chiusi nella mia camera ascoltando il vinile più triste che possedessi.
Avevo deciso di procedere come nulla fosse accaduto. Se i miei genitori mi chiedevano di Martha dicevo che era finita, se chiedevano di più non rispondevo, o dicevo che era stata tutta colpa mia, così sentivo mia madre borbottare dalla cucina che ero uno stronzo, chissà come la trattavo, cosa le avevo fatto passare, che aveva cresciuto un mostro anziché un figlio. Ma cercavo di non ascoltarla perché, nonostante precocemente, aveva ragione.
Guardami, l'esecutore di New Orleans: guardando indietro, mi ci sento, un mostro.

Comunque andò avanti così per un po': le storie non duravano. Non duravano perché mancavano di serietà dalla mia parte, era raro ma mancavano di serietà pure loro ogni tanto. Però la vita andava avanti.
Andava avanti per il verso giusto. Talmente per il verso giusto che riuscii a diplomarmi con merito e i miei insegnanti mi dicevano che avrei fatto grandi cose nella vita; è stato così? Per me, assolutamente. È stato così.

Poi mi sono laureato, senza tante difficoltà. La laurea dei miei sogni. Così, ero libero. Potevo scappare ovunque volessi. Ed è qui che ci trasportiamo in un periodo della vita in cui avevo venticinque anni ed iniziavo a lavorare in psichiatria. Mi ero trasferito a New Orleans con l'obbiettivo di non tornare più in Michigan. Mai più.
Ambivo ad una carriera, farmi un nome. No, il mio obiettivo non era quello di farmi conoscere come un assassino seriale. In quel periodo non ci pensavo nemmeno, non mi era mai passato per il cervello.

Dicevo, ero stato assunto in psichiatria, per fornire supporto e fare qualche iniezione quando capitava. Non facevo granché e la mia posizione non era di vitale importanza, ma visto il sovraccarico della struttura, avevano bisogno di un paio di mani in più.
Passavo le mie giornate a catalogare campioni di sangue e di urina, consegnavo ad ogni singolo paziente i suoi psicofarmaci, placavo le situazione che esigevano di un intervento.

In quel periodo conobbi colui che sarebbe stato la mia prima vittima. Però, non avevo ancora accesso a quelle che, ora, sono state definite le mie armi, poiché svolgevo un ruolo di poco conto all'interno della struttura.

Comunque, lo conobbi quasi per caso. Non l'avevo mai visto prima. Così pallido nel mezzo della fila indiana, che attendeva i suoi psicofarmaci. Gli occhi spenti che quasi non mostravano nessuna emozione.
Non sono tipo che cerca scusanti, che per salvarsi il culo scarica la colpa agli altri di ciò che ha fatto, non è così. Però, Ian m'ha mostrato la strada. Mi ha condotto verso l'arte di uccidere.

"Accidenti, quella lucina rossa sta diventando sempre più debole. Spero abbia-".

L'arte di uccidereDove le storie prendono vita. Scoprilo ora