13: nastro n.6, 22 Giugno 1997.

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L' A R T E
D I
U C C I D E R E

Devo ammettere, Ezra, che a seguito della nostra conversazione avvenuta la scorsa settimana in merito ad Ian Carter, ho avuto molto a cui pensare.

Sai, quel che è successo nel passato tendo a lasciarlo nel passato, non ci rimugino mai sopra, ed erano anni, oramai, che non mi ritrovavo a pensare ad Ian ed a ciò che aveva svegliato in me.
Così ho passato l'intera settimana a pensarci, ci ho pensato talmente tanto che mi è apparso un'inusuale mal di testa.

Durante il mio tempo a disposizione, che come sai qui dentro è molto, ho avuto modo di pormi delle domande che non mi ero mai posto prima.
Mi chiedevo se fosse arrivata l'ora di fare la cosa giusta, di smetterla di mantenere questo segreto che ho dovuto rinchiudere in una parte remota della mia mente per non pensarci più; dovrei... uscire allo scoperto?

Sono sempre stato consapevole che, a meno che non l'avessi dichiarato io stesso, la polizia non avrebbe mai saputo che quella morte era avvenuta per opera mia, e sono anche consapevole che la famiglia di Ian ha già elaborato il lutto ed è andata avanti.
Semplicemente... mi chiedevo se ne valeva la pena. Ne vale, quindi, la pena?

Con tutto quel tempo a disposizione sono riuscito a trovarla, una risposta. Non ne vale la pena, ma sento il bisogno di farlo. Di annunciare al mondo che Ian Carter e altre tre persone sono morte per opera mia, non per un arresto cardiaco come tutti credono. Lo farò, ne sono sicuro. Voglio andarmene con la coscienza pulita, senza più nessun segreto. Libero. Leggero come una piuma. Quando sarò morto non voglio che la mia anima rimpianga i segreti non detti. Voglio andarmene in pace, portando con me solo l'amore per la mia famiglia e per la mia vocazione.

Ora, non mi dilungherò troppo su ciò a cui ho pensato o a cui non ho pensato mentre mi rigiravo i pollici nella mia lussuosa camera carceraria - si fa per dire - e continuerò il mio racconto per provare a dimenticare Ian. Ogni qual volta che penso a lui, mi viene la pelle d'oca.

Nelle settimane e nei mesi a seguire passai molto tempo nel mio ufficio a crogiolarmi.
Pensavo a ciò che avevo provato dopo l'omicidio. Avrei dovuto avere paura delle conseguenze derivanti dalle mie azioni, ma ne traevo solo compiacimento. Non sapevo come comportarmi difronte queste nuovissime sensazioni e cercavo solo di.. ignorarle, finché non sarebbero magicamente scomparse.

Mi sembrava così strano ammettere a me stesso che l'avevo scampata, per quanto sono sempre stato una persona scaramantica nella vita, ho avuto paura che, se avessi preso troppa confidenza nel credere che l'avessi scampata, la polizia avrebbe immediatamente bussato alla mia porta e mi avrebbe ammanettato difronte l'intero reparto.

Mi sentivo invincibile per non essere ancora stato scoperto, ma allo stesso tempo stavo crollando.
Avevo compromesso la mia carriera ed ero sicuro che sarebbero arrivati a me da un momento all'altro ed avrei perso la mia licenza medica, che tanto m'ero sudato.
Però l'altra parte di me - la parte che ormai aveva già fatto sua l'arte di uccidere - avrebbe ucciso ancora. Mi rettifico: desiderava fortemente uccidere ancora. Impelleva dentro di me il bisogno di farlo di nuovo. E un dilemma mi sorse spontaneo: tenevo più alla mia famiglia, alla mia licenza, o all'anelante impulso di soddisfare quel bisogno che sentivo?

Mentre io combattevo la mia guerra interiore per far vincere il buono e sconfiggere il male, nel mio reparto stavano girando voci che sarebbe arrivata una nuova ondata di pazienti mandati da un'ospedale di una città limitrofa che aveva dovuto chiudere il reparto di psichiatria a causa di alcuni tagli al bilancio, insomma, per fartela breve, il loro reparto non fatturava quanto quello di chirurgia o traumatologia, e ci mandavano i loro pazzi.
Le infermiere, che sono le più pettegole di tutto l'ospedale, avevano orecchiato che l'ondata di nuovi pazzi sarebbe arrivata da lì ad un mese, ed io sapevo di avere meno di un mese di tempo per reprimere il mio vero essere e tornare alla mia normale, noiosissima, routine lavorativa. Dovevo smetterla di crogiolarmi nel mio ufficio e scaricare tutti i miei compiti ai specializzandi. Dovevo tornare in me.

L'arte di uccidereWhere stories live. Discover now