2. Galeotta fu la matita e chi la rubò

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Il Professor Edwards entrò in aula, proiettando su di sé l'attenzione.

Sfoggiava labbra sottili arcuate in un sorriso smagliante e uno sguardo sicuro e sagace: aveva lunghi capelli marroni, portati fin dietro le spalle e grandi occhi vitrei che gli illuminavano la pelle chiara. Notai subito che aveva una forte ossessione per l'ordine: cincischiava costante la camicia, color azzurro fiordaliso, per lisciarne le pieghe. Adagiata sulla cattedra in rovere, c'era una fila di penne colorate con le etichette rivolte verso l'alto, tutte perfettamente allineate. Stringeva fra le dita una piccola scatola in latta dove erano custoditi dei gessetti bianchi, stondati, delle stessa lunghezza e dimensione.

Ascoltai con vivo interesse la sua voce melliflua illustrare il programma del corso: Genetica Animale. Entusiasta decisi di annotare alcune informazioni. Accennai un sorriso a fior di labbra, un luccichio di curiosità mi brillò negli occhi e catturai la matita fra le dita. Mentre scrivevo sorpresi il ragazzo al mio fianco osservarmi in silenzio. Per un attimo ebbi l'impressione che mi stesse studiando. Poi, di punto in bianco, gettò la testa all'indietro e sollevò le braccia fin sopra il capo, rilassando i muscoli intorpiditi. Gemiti profondi grondarono fuori dalle sue labbra rosso ciliegia.

Finsi di non sentire, socchiusi gli occhi in un sospiro; quando li riaprii mi accorsi che aveva sollevato i lembi della felpa fin sopra l'addome, scoprendo gli addominali scolpiti. La pelle ambrata rifulgeva come uno specchio baciato dal sole, sprigionava un vigore travolgente, vibrando ad ogni respiro sommesso. La bocca mi si aprì come un bocciolo. Mi ritrovai a fissarlo con occhi spalancati, osservando la dolcezza impressa nei suoi lineamenti, morbidi e sottili. Catturai la particolarità di ogni dettaglio: riccioli ribelli scivolarono soavi sul viso pulito e fresco, adombrato da un'espressione accigliata. Guardai quelle onde muoversi ad ogni sospiro, carezzavano soffice la fronte, posandosi sul ricordo di una cicatrice sbiadita. Le dita affusolate sfioravano appena il labbro inferiore, lì, in quel punto preciso, colsi un particolare che non avevo notato prima d'ora: l'anulare era chiuso in un cerchio d'acciaio, su cui era incisa una frase minuscola, impossibile da cogliere.

«Non te l'ha mai detto nessuno che fissare le persone è inappropriato?»

La sua voce sottile e beffarda mi fece drizzare i peli delle braccia.

Sussultai, ingoiando un sospiro, sollevai il volto all'istante e trovai i suoi occhi affilati incastrati nei miei.

Si era accorto che mi ero imbambolata a fissarlo?

Capii subito il mio errore. La vergogna mi morse lo stomaco e le guance mi pizzicarono. Tentai di nascondere le emozioni contrastanti che mi brulicavano nel petto come formichine impazzite, ma la tensione sulla pelle e l'imbarazzo dipinto sul viso, erano due indizi chiari ed inequivocabili del mio evidente disagio.

Avevo fatto l'ennesima figuraccia.

Mi morsi le labbra, nervosa, mentre lui, imperturbabile, mi guardava fisso. In quel momento, avrei desiderato essere invisibile, nascondere la testa sotto la sabbia e sparire per sempre. Tuttavia, raccolsi una briciola di coraggio e mi feci forza, cacciai via la vergogna e mi sforzai di parlare, cercando disperatamente una scusa che giustificasse il comportamento.

Cosa mi invento ora?

Pensa Joy, trova una ragione plausibile, un motivo più che valido per guardare un ragazzo con così tanta insistenza.

«Non ti stavo fissando, stavo...» deglutii. «Stavo solo guardando la tua felpa» replicai con voce sottile. Patetica, era il termine più appropriato per definire la mia risposta, e pensare che ci avevo persino ragionato sopra. Maledizione, avrei voluto schiaffeggiarmi da sola.

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