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LEONOR

   Una sala da pranzo. Gareth Von Rodmane mi ha condotta in una sala da pranzo, o quello che ne rimane. Il mobilio è scarso, c'è appena un lungo tavolo e cinque sedie con la seduta imbottita di velluto scarlatto ormai sbiadito dall'incuria e graffiato in molti punti, e ogni schienale in legno è mangiucchiato dalle termiti. Per non parlare delle braccia, brandelli di ovatta ingiallita piovono sul pavimento di grosse e grigie piastrelle lapidee.

Come in ogni altra stanza che ho attraversato vi regna un tanfo di cane bagnato misto a putrefazione. Non ho visto un singolo angolo che non fosse usato come discarica di ossa e avanzi della caccia. Non uno. Le mosche ronzano in aria quasi fossero loro padrone del palazzo.

   Eppure, sotto tutti quegli strati di incuria e sangue incrostato, c'è un ché in questo castello che mi attrae. Un tempo doveva essere meraviglioso, una visione folgorante con i soffitti alti e i preziosi lampadari accesi che scendevano sulle teste degli invitati. Gli ambienti immensi, gli affreschi e i quadri che ho visto seguendo Gareth, dovevano restituire un'atmosfera di un altro mondo, un mondo diverso per tanti aspetti. Primo fra tutti un senso di calma apparente, qualcosa che manca da secoli nel mondo reale e persino in quello fittizio dei racconti. Lo dimostra l'attuale aspetto di questo castello che adesso si presenta come un lontano ricordo della sua stessa ombra.

   «Siediti.»

   Gareth scosta una sedia e mi invita a sedere di fronte a un piatto con un coperchio a cupola mezzo arrugginito.

Io lo raggiungo titubante. Passo per il lato ovest della sala osservando le gigantesche vetrate e annusando quel poco di aria pulita che riesce a entrare tramite gli spifferi. Poi alla brezza si aggiunge un altro odore, mi solletica il palato e...

   «Hai fatto cucinare del pollo?»

   Lui non risponde e io non mi interrogo ulteriormente. Alzo la cloche e mi lascio andare sulla seduta che sprofonda sotto al mio peso. Il pollo non è il migliore che ho visto, quattro cosce bruciate galleggiano in un liquido rossastro, ma ho talmente fame che lo divorerei senza pensarci un attimo.

Un calice in cristallo è ricolmo di vino, lo afferro per portarmelo sotto al naso. L'odore dell'alcol mi riporta immediatamente alla taverna degli Shoofe, alle litigate con Thoth e a quegli infiniti boccali che passavano sui tavoli assieme alle carte.

   I miei occhi si accendono di speranza quando alla sinistra del piatto – sopra una pezza ripiegata malamente – vedo delle posate. Il coltello dalla lama affilata è molto allettante, devo ammetterlo lo è assai più del cibo. Lo afferro approfittando del fatto che Gareth mi da le spalle e me lo infilo nella manica dell'uniforme. Più tardi mi sarà utile.

   «Mangia.» Gareth si è allontanato prendendo posto dalla parte opposta del tavolo e mi ha dato un altro ordine, usando lo stesso tono altezzoso di prima.

   Questa volta però non obbedirò.

   Chissà cosa potrebbe averci messo, mi chiedo. Crede che mi fidi? Il suo atteggiamento così contraddittorio, non mi piace affatto.

   «Mangia.»

   Piccoli passi si infilano nell'ampio e incontrollato vuoto della sala facendo eco alle sue parole. Sono le zampe e gli artigli di due lupi che si avvicinano a passi alternati lungo tutto il corridoio. Riesco a vedere le loro code e orecchie, uno ha il manto grigiastro e l'altro un lungo pelo fulvo. Si mettono ai lati di Gareth che li accarezza in silenzio.

   «Loro non vogliono trasformarsi, o sei il solo ad essere speciale?»

   Gareth mi ignora nonostante non abbia occhi che per me.

Sangue e Petali d'Ardesia Where stories live. Discover now