9. Katharina

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Una cappa di malumore mi aveva avvolto per tutta la mattina mentre lavoravo e coordinavo i vari reparti per far si che al grande capo giungessero solo cose di cui io non potevo occuparmi direttamente. Quel tipo di lavoro che andava ben oltre il semplice lavoro da segretaria era quello che ero abituata a fare con Jakob e, a meno che non arrivasse un ordine diretto dall'alto, non avrei smesso. Ero fortunata, mi occupavo di cose che mi piacevano e lo facevo volentieri, non tutti potevano affermare queste due cose a cuor leggero.

Coloro che avevano la propria postazione sul piano erano venuti a chiedermi se avessi già conosciuto il nuovo capo e alla mia asettica risposta vi racconto a pranzo altrimenti Capitan produttività si arrabbia erano di volta in volta scoppiati a ridere e avevano risposto affermativamente quando avevo proposto di vederci in pausa pranzo per andare tutti insieme al solito locale dove andavano quando facevamo questi pranzi improvvisati, lì il servizio era veloce e ci permetteva di rimanere dentro l'ora di pausa prevista.

Quando giunse finalmente il momento di lasciare l'edificio per un po', mi premurai di lasciare un post-it attaccato alla scrivania che recitava:

Sono in pausa pranzo, ci vediamo tra esattamente un'ora.

Con tanto di sottolineatura sotto quel fastidioso esattamente.

Sapevo di star giocando con il fuoco, rischiavo, se già non si era creato, che tra noi si instaurasse un rapporto di non sopportazione che avrebbe minato le basi della mia tanto agognata convivenza pacifica. Eppure allo stesso tempo non riuscivo a pentirmi di quei gesti, erano senza ombra di dubbio infantili e li avevo fatti lasciandomi come sempre trasportare dalle emozioni, ma anche lui aveva la sua dose di colpa. Poteva passare ciò che era successo prima di quella mattina, nessuno conosceva l'altro e potevamo entrambi essere in un momentaccio, ma l'insinuare della negligenza da parte mia verso il mio lavoro era qualcosa che non potevo accettare, specie se l'aveva fatto senza conoscere nulla delle dinamiche interne alla struttura. Potevo avere un permesso speciale per attaccare mezz'ora dopo o prima l'orario di lavoro e lui non esserne ancora a conoscenza visto che non aveva preso contatti con l'ufficio delle risorse umane il cui responsabile aveva chiesto a me per sapere quando poteva salire a presentarsi.

A pranzo, raccontai il misfatto della mattina a una piccola platea attenta condendo il tutto con la giusta dose di ironia, perché per quanto potessi ancora sentire la rabbia ruggirmi nelle vene, non ero solita lasciare che questa mi condizionasse a lungo. Le domande e i commenti si sprecarono una volta finita la mia esposizione e quelle chiacchere si protrassero finché non rientrammo in ufficio, dove, raggiunta la mia postazione, notai che il post-it giallo era stato spostato.

Ignorando quel piccolo particolare e gettando quello stesso foglietto nel cestino posto sotto la scrivania, ripresi le attività che avevo lasciato in sospeso per andare a pranzo e mi immersi nella revisione finale di una campagna pubblicitaria per la vendita di una nuova bambola, se avesse passato il mio esame allora avrei disturbato il mio nuovo, tronfissimo capo perché lo approvasse.

Ero talmente concentrata su quel piano che quando la voce ancora sconosciuta del signor Mayer mi giunse alle orecchie sobbalzai presa in contropiede.

«Era con la testa tra le nuvole?»

Non sapevo se quel tono in parte canzonatorio e in parte supponente lo usasse senza rendersi conto o se invece fosse una scelta ben precisa per irritare me, una cosa era certa però: io non lo sopportavo. Non importava chi parlasse in quel momento, poteva essere anche l'angelo più buono del Paradiso, mi avrebbe mandato comunque in bestia.

Anche Jakob aveva usato quel tipo di tono ma con lui aveva sempre una sfumatura più distesa e giocosa, motivo per cui non andava a toccare quei tasti che tanto mi facevano scattare.

Armonia di sogni e speranzeWhere stories live. Discover now