17. Katharina

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Quella settimana si concluse con la stessa piega che aveva preso a partire dal giovedì: un sali e scendi di malumore e scintille di normalità. Avere quella deadline, ora così reale e tangibile, che pendeva sulla testa di mio padre sembrava aver spazzato via parte delle mie energie e, allo stesso tempo, mi aveva resa ancora più determinata a godermi il tempo restante.

Nikolaus, nei due giorni che ci avevano separato dal weekend, aveva notato quel cambiamento che speravo fosse il meno eclatante possibile ma che, stando a contatto per ore e ore, lui aveva colto nonostante tutto. Infatti, avevamo continuato a usare quel metodo sinergico che sembrava essere l'ideale per come operavamo entrambi.

Quel giorno però avevo l'intenzione di dedicarlo a tentare di allontanare un po' della negatività che stavo accumulando ma attuai quell'idea solo una volta fuori dal Charité, avevo infatti approfittato dell'orario di visita mattutino per andare da mio padre, complice anche il fatto che anche Jakob voleva andarlo a trovare. I due non si vedevano da un po' e mio padre fu contento di vedere quello che, con il tempo, era diventato un suo grande amico, Jakob espresse la stessa contentezza mentre mi riaccompagnava a casa, allungando fin troppo il giro di ritorno, ma il mio ex capo era testardo tanto quanto il figlio, anzi, se possibile, lo era perfino di più.

«L'ho trovato bene, quantomeno nello spirito.» Commentò non appena fermò la macchina praticamente sotto casa mia, io sospirai di rimando indecisa se intavolare il discorso con lui. Jakob si sarebbe fatto carico di quella consapevolezza e sarebbe rimasto ad ascoltare qualsiasi cosa avessi avuto da dire, ma si sarebbe anche preoccupato più di quanto non avesse fatto fino a quel momento.

«Sì, probabilmente quella sarà l'ultima cosa che l'abbandonerà.» Borbottai quasi sperando che non mi sentisse, l'abitacolo della macchina però era troppo angusto per pensare veramente al contrario.

«Va così male?»

Rispondere con un secco mi sembrava scortese, così mi spinsi a spiegare qualcosa in più.

«I medici pensano che gli rimangano solo tre mesi.»

A sospirare stavolta fu lui, non sembrava molto stupito da quella nuova informazione che gli avevo appena fornito, forse non era vero che aveva trovato bene mio padre.

«Questo spiega tutto.» Mormorò prima di scrutarmi dalla testa ai piedi e aggiungere: «Tu come la stai prendendo?»

Male fu la prima risposta che mi salì sulla punta della lingua, ma poi mi strinsi nelle spalle e, con esasperazione grondante da ogni sillaba, risposi:

«Cosa vuoi che ti dica? Devo accettarlo per forza di cose.»

Il groppo in gola che si era andato formando da quando avevamo aperto l'argomento ora si stava facendo più grande così non aggiunsi altro. Jakob forse capì in parte cosa stesse succedendo dentro di me e si sporse ad abbracciarmi, uno di quelli che duravano tanto ma che facevano bene perché lasciavano il tempo di respirare e, se serviva, riprendere il controllo di me stessa.

«Qualsiasi cosa ti serva...» Lasciò la frase in sospeso ma non c'era bisogno che la concludesse. Qualche momento più tardi sciolsi quell'abbraccio che sapeva della colonia che Jakob usava da praticamente sempre.

«Va meglio?» Domandò subito dopo, io annuii prima di salutarlo e scendere dalla sua auto.

Entrando in casa, tirai fuori il cellulare fino a quel momento abbandonato dalla borsa poiché aveva continuato a segnalare l'arrivo di notifiche da parte dell'applicazione con il logo verde e bianco. Sfilandomi le scarpe, scorsi la moltitudine di messaggi proveniente dal solito gruppo che stava organizzando una nuova uscita per quella sera.

Armonia di sogni e speranzeWhere stories live. Discover now