CAPITOLO 2

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Il giorno seguente mi svegliai alle cinque del mattino e lo aspettai fino all'ora di pranzo, ma non venne. Quando mi resi conto che non lo avrei più visto provai una tristezza inconsolabile. Come potevo lasciarlo andare via? Come lo avrei ritrovato? Sapevo solo il suo nome, ricordavo i suoi occhi, la sua voce e il suo sorriso, sapevo che era pieno di impegni importantissimi ai quali non poteva rinunciare... Forse sarebbe ritornato a Milano, dovevo rimanere lì ad aspettarlo... forse lo avrei rivisto. Ma il tempo scorreva. Facevo cinque ore di terapia al giorno, lo psicologo mi poneva le domande più strane, ma nulla sembrava aiutarmi. Assumevo tantissimi medicinali, perlopiù pastiglie, anche se iniziavo a dubitare della loro efficacia. Persi il conto di quanti giorni passarono, i medici lentamente abbandonarono le speranze, i miei genitori non si fecero mai vivi ed io diventai un letto sconosciuto, senza nome. Tutto ciò che facevo durante il giorno era osservare il via vai di infermieri e dei parenti che si occupavano degli altri pazienti. Tutte le attenzioni che ricevevo si riducevano a semplici domande da copione, mi servivano la colazione, il pranzo, la cena e i miei soliti medicinali, ma ogni volta che vedevo avvicinarsi qualcuno, lo guardavo sempre piena di aspettativa, senza mai perdere la speranza che finalmente qualsiasi persona sulla faccia della Terra fosse venuta a cercare me: una ragazza senza nome né ricordi. Ormai erano giorni che nessuno mi visitava più, le ferite erano cicatrizzate e il colpo sulla fronte era diventato un semplice livido. Ogni tanto mi alzavo dal letto e passeggiavo nel corridoio o andavo nel giardino. Al collo portavo sempre il crocifisso, non me lo toglievo mai e a volte, quando mi facevo prendere dalla disperazione e dallo sconforto, lo tenevo tra le mani e gli parlavo. Fantasticavo di rivolgermi a Marco e gli chiedevo come stava,Bdov'era, se era sempre così impegnato e se regalava a tutti il suo sorriso. Lo sognavo, lo pensavo e mi chiedevo come uno sconosciuto fosse potuto entrare nella mia mente con tale ossessione, ma infondo anch'io ero una sconosciuta per me stessa. A volte, nei momenti di pura follia, ammettevo addirittura che si trattasse di amore, ma poteva esserlo veramente? Poteva una persona affetta dall'amnesia innamorarsi della prima persona che aveva visto al suo risveglio? Di una cosa però ero sicura: quel triste ospedale non era il luogo in cui avrei voluto passare il resto della mia vita. Vedevo persone malate o ingessate affondare fra le lenzuola dei propri letti, incapaci di muoversi, e nessuno portava quel sorriso il cui ricordo riempiva il mio cuore. Io non avevo nulla in comune con quelle persone, non ricordavo, nessuno mi aveva cercata, ma avrei potuto ugualmente vivere normalmente fuori da lì. Mi sarei data un nome, un'età, un'identità e finalmente sarei stata qualcuno. Nemmeno m'importava più chi ero prima dell'incidente, quali interessi avevo e quali amici frequentavo... se nessuno si era ricordato di me, non era una vita degna di essere vissuta. Più passavano i giorni e più l'idea che mi frullava in testa prendeva forma e si concretizzava, finché non fui completamente decisa di metterla in atto: sarei scappata e sarei andata in quel posto tanto famoso: Roma e avrei cercato dappertutto quel ragazzo di nome Marco. Questo era tutto quello che sapevo di lui, ma la voglia di trovarlo mi divorava. Fu forse l'unica vera ragione che mi spinse a scappare da quell'ospedale. Architettai un'uscita in pieno giorno, quando medici, infermieri e parenti andavano avanti e indietro per l'ospedale indaffarati: c'era gente che entrava e gente che usciva dalla porta d'ingesso, nessuno si sarebbe accorto di me. Ormai era tutto pronto, non avevo molto che mi appartenesse nella mia stanza, così, stringendo fra le mani il crocifisso che portavo al collo, mi avvicinai alla porta che dava sul corridoio. Non feci in tempo a fare qualche passo, che un uomo con un camice bianco entrò nella stanza, con aria indecifrabile. Osservai gli altri pazienti con cui condividevo la stanza, cercando di indovinare a chi fosse rivolta l'attenzione di quel medico, ma quando tornai a guardarlo, notai che i suoi occhi erano fissi su di me.. questo non accadeva da tanto. <<C'è una famiglia che chiede di te, dicono di aver perso una figlia negli ultimi di novembre... credo proprio che tu abbia ritrovato i tuoi genitori>>. Quel medico era entusiasta della notizia, forse molto più di me, che mi limitavo a guardarlo a occhi spalancati.. perché proprio adesso?Il fatto che finalmente i miei genitori fossero venuti a prendermi mi colpì davvero, ma ormai era troppo tardi, il loro tempo era scaduto, non m'importava niente di quelle persone che mi sarebbero state comunque estranee, la mia unica "famiglia", il mio punto di riferimento era uno solo. <<...Wow... arrivo subito>> risposi cercando di sembrare entusiasta almeno quanto lui. Il medico lasciò la stanza, ma non prima di avermi rivolto un sorriso incoraggiante, per un attimo mi chiesi se quell'uomo (lo stesso che mi aveva accolta al mio risveglio) avesse preso a cuore la mia situazione. Ma questo adesso non importava, un pensiero mi assalì all'istante appena lui si allontanò nel corridoio: ora o mai più. Varcai la porta e a passo veloce, fingendo di star raggiungendo la mia "famiglia ritrovata", mi spinsi fino all'atrio dell'ospedale e mi avvicinai con disinvoltura alla porta d'uscita, benché fossi consapevole che il pigiama che indossavo, non si sarebbe confuso con l'abbigliamento delle altre persone. Proprio nel momento in cui varcai la porta d'ingresso, il medico mi notò e, senza curarsi della gente, gridò <<Ehi ragazzina, dove pensi di andare?!>>. In quell'istante non potei più ignorare il cuore che minacciava di esplodermi nel petto a causa della forte emozione. Accelerai il passo dirigendomi fuori dall'ospedale, ma il medico cominciò a seguirmi con ampie falcate ed io cominciai a correre più che potevo lontano da quel posto. <<FERMATE QUELLA RAGAZZA!!>> lo sentii gridare. Correva davvero veloce, ma ce la misi tutta per seminarlo. Mi trovai fuori dall'ospedale, solo una volta ero stata per quelle strade, c'erano alcune case e le macchine passavano velocemente in strada. Non avevo tempo di pensare da che parte sarei potuta andare, l'unica cosa che contava in quel momento era scappare più veloce che potevo lontano da quell'ospedale. Ma presto mi ritrovai senza fiato e rallentai per guardarmi alle spalle... il medico era sempre più vicino, riiniziai a correre e senza accorgermene mi scontrai con una persona finendoci addosso. Avrei voluto ricominciare a correre liquidandolo, ma istintivamente mi voltai chiedendo scusa. Quando lo feci non credetti ai miei occhi... la persona su cui ero andata a sbattere era lui... Marco! Non riuscii a nascondere l'espressione di gioia che mi travolse appena vidi il suo viso, era esattamente come lo avevo conservato nei miei scarsi ricordi: gli occhi grandi e scuri, il sorriso smagliante, la fronte alta e il naso a punta. Anche Marco era felice di vedermi, ma non nascose di essere sorpreso dal nostro incontro. <<Cosa ci fai qui?>>. Avrei voluto volentieri rispondergli, ma il medico cominciava ad essere vicino, così gli afferrai il polso e gli dissi <<Marco, perdonami, ora non c'è tempo, ti spiego tutto più tardi>>, ricominciai a correre tirandomelo dietro, ma lui piantò i piedi a terra e non si mosse... così facendo il medico ci raggiunse. Appena fu sufficientemente vicino, rallentò recuperando il fiato. <<Grazie mille Mengoni. E tu, ragazzina! Ma come ti è saltato in mente di scappare così?!? Che cosa avevi intenzione di fare?!?>>, il medico mi puntò addosso un'espressione accigliata e ammonitrice. <<Di nulla>> rispose Marco. Guardai Marco con infinita delusione, non riuscivo a credere che proprio lui avesse mandato in frantumi il mio piano. <<M... Marco, come hai potuto??>>, <<Perdonami, ma tu sei una ragazza malata e hai bisogno di cure, non puoi scappare da un ospedale>> si giustificò. <<Vi lascio un momento soli>> disse il medico allontanandosi. <<Marco non voglio andare a vivere in una famiglia che non conoscerò mai, non voglio. Vorrei soltanto ricominciare una vita normale, quella gente non sarà mai la mia famiglia!!>> mi sfogai, mentre i miei occhi si riempivano di lacrime. Marco cercò di farmi ragionare <<Non potrai mai diventare qualcuno se non sai chi eri prima>>, <<Ma so chi sono adesso e cosa voglio>> replicai, <<Quella è comunque la tua famiglia, vedrai che starai bene con loro, se dovessi dirgli di no pensa a quanto potrebbero soffrire>>, <<Ho sopravvissuto senza di loro per tutti questi giorni, perché ora dovrei aver bisogno di loro?>>, <<Perché sono persone che ti vogliono bene e in questi mesi saranno stati in pensiero per te senza avere tue notizie>>, <<Ed io li ho aspettati fino ad adesso, ma non si sono fatti vivi. Tutto quello che chiedo è una vita normale senza dipendere da estranei!>>. Le prime lacrime mi rigarono il viso, <<Una vita per sempre sola?>> chiese Marco con infinita dolcezza, <<Non con loro>>, <<E con chi?>>, <<Con persone che davvero mi vogliono bene e mi stanno vicine, persone che amo>>, <<Cosa sai che magari per loro sia davvero così? Perché non dai loro una chance?>>. A questo punto la domanda era ovvia: "Perché non voglio perderti di nuovo, voglio stare con te, non con loro, non puoi abbandonarmi un'altra volta" urlava il mio cuore davanti a lui. Tutto questo non lo dissi, ma lui sembrò capirlo, mi abbracciò tenendomi stretta a sé. <<Vedrai che andrà tutto bene>> mi disse <<È tutto così complicato>> risposi bagnando la sua giacca di lacrime. <<Mi dispiace>> mormorò Marco accarezzandomi la schiena, <<Non lasciarmi di nuovo>>, <<Non lo farò, ma ora devi tornare in ospedale con il medico e conoscere quelle persone, vedrai che ti piaceranno>>. Mi staccai da lui guardandolo, mi asciugò le lacrime accarezzandomi le guance, posò lelabbra sulla mia fronte e mi lasciò con il medico, allontanandosi dalla parte opposta. Feci come mi aveva detto, solo perché era stato lui a chiedermelo, l'unico a cui tenessi veramente e l'ultima cosa che avrei voluto era deluderlo. Mi costò molto tornare indietro e mi pentii subito di averlo lasciato andare via.

I miei genitori non erano proprio come me li ero immaginati.


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