Papaveri e papere

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Vincenzo sollevò improvvisamente la testa. Un rumore lieve, un fruscio, forse un gatto. Era rimasto seduto in poltrona per un paio d'ore, a pensare cose confuse e poco impegnative, tra il sonno e la veglia. Non c'era talmente niente lì intorno che qualunque rumore era un allarme. Si alzò lentamente, la pancia per ultima, che tanto quella sembrava avere vita autonoma. Si sistemò il golfino grigio leggero per coprirla, anche se non lo vedeva nessuno. Pancia da birra, ed era venuta proprio a lui che non beveva mai. Passò gli occhi sulla serra, ma lì dentro non poteva entrare nessuno senza restare intrappolato nell'intrico di pali e filo spinato. Si mosse lentamente dal tinello alla cucina, gli occhi vigili che andavano rapidi, in contrasto con il resto del corpo che si trascinava con indolenza. Era un uomo piacevole, alla prima occhiata, aveva la barba lunga con ancora più biondo che grigio, gli occhi buoni, la pelle tesa, colorita. Poi però tutti quelli che lo guardavano per più di un minuto iniziavano a sentirsi inquieti, senza una vera ragione.

«Lo sanno.» diceva Vincenzo «Mi fiutano.»

Probabilmente invece era vero il contrario, quella sensazione di irrequietezza la trasmetteva lui, VOLEVA che loro si sentissero a disagio, loro, i normali, quelli che dovevano lasciarlo in pace. Trascinando i piedi -quando avrebbe potuto benissimo muoversi normalmente, ma ci teneva a sembrare più debole del dovuto- arrivò in ingresso a mettere gli occhi sul cerchio di vetro smerigliato della porta. Il rumore arrivò subito, più forte di prima, perché sapeva che dal vetro si era vista la sua ombra e che dall'altra parte avevano avuto paura. Un passo indietro sul ghiaietto, niente più.

«Vai via.» disse alla porta.

La voce era troppo bassa perché potesse arrivare fuori, eppure sapeva di essere stato sentito. Quasi tutti avevano imparato che non era il caso di avvicinarsi alla casa, non che fosse pericoloso, ma era saltato fuori a sbraitare contro il postino, i venditori di surgelati, gli sporadici distributori di volantini, e quelli si erano spaventati. Aveva comprato una cassetta per le lettere all'americana e l'aveva messa in fondo al vialetto, così che potessero depositarci dentro quello che volevano, ma oltre il cancelletto rotto non dovevano andare.

«Vai via.» ripeté.

Un nuovo rumore, altri sassolini spostati, poi più niente. Non imparavano mai. Spalancò la porta di scatto e si lanciò fuori solo col busto, ruggendo:

«VAI VIA!»

In mezzo al vialetto un bambino. Poteva avere dai sette ai dieci anni, ma Vincenzo seppe subito, alla prima occhiata, che non ne aveva più di otto. Era magro, sembrava più basso perché stava gobbo in avanti come i gatti quando stanno per soffiare, tutto occhi. Lo guardava, incapace di voltarsi e scappare. E Vincenzo lo guardava a sua volta, incapace di uscire come di rientrare. Difficile capire chi dei due fosse più spaventato. Poi passò davvero un gatto, uno dei dodici che l'uomo sfamava sul retro della casa, e tagliò la strada al ragazzino. Questo ruppe la paralisi, si voltò di scatto e si scapicollò fuori dal vialetto verso una bici che probabilmente era sdraiata lì vicino, accanto ai gelsi.

«Non scappare.» disse Vincenzo, ma la voce gli uscì così strozzata che il gatto si fermò per un attimo, incerto. «Non ti faccio niente.» aggiunse.

Ma sapeva che era una bugia.

*

Daniele Burati era un toscano senza senso dell'umorismo. Le battute le capiva, ma non lo facevano ridere. Gli amici dicevano che nessuno gli aveva mai visto i denti e lui rispondeva che i denti servivano per mangiare. Probabilmente era per questo che le donne scappavano, dopo un po', perché all'inizio sembrava sempre così bello, ombroso, scuro d'occhi e capelli, sempre abbronzato e misterioso, chissà cosa nascondeva quel fiero corruccio. E poi, scoperto che il fiero corruccio non nascondeva proprio niente e che Daniele era tutto lì, in una manciata di parole e vagonate di silenzio, se ne andavano chete chete anche loro, senza disturbare. Lui non le tratteneva, era come una banchina del porto, gli diceva il collega Gianni, arrivano, attraccano e quando hanno finito se ne vanno e tu te ne resti lì fermo come prima. A Daniele non importava molto, sapeva che se proprio voleva una donna la trovava facilmente, ma tanto erano sempre loro a trovare lui, anche prima che ne avesse bisogno. Era tornato a casa da meno di mezz'ora, stanco perché la giornata era stata impegnativa e i clienti noiosi. Lavorava in un'azienda agricola, si occupava prevalentemente delle vendite, degli ordini, questioni pratiche e meccaniche, ma qualche volta gli toccava gestire i rapporti umani e sempre ne usciva affaticato. Aveva acceso la tv mettendo il volume sul "muto", gli bastava percepire il movimento e il cambio di colore con la coda dell'occhio per sentirsi in compagnia. Aveva tirato fuori una bottiglia di vino bianco dal frigo, che quella sera ci sarebbe stata tutta, quando il campanello ronzò. Non aspettava nessuno, quindi erano rogne. Aprì la porta e vide suo padre, l'impermeabile buttato addosso come su una gruccia, immobile, gli occhi cerulei umidi.

Non ti faccio nienteDove le storie prendono vita. Scoprilo ora