Le cose non dette

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«C'E' TROPPO SANGUE!» gridava Angelo «C'E' TROPPO SANGUE!»

La faccia di Raffaella era pallida, gli occhi quasi rovesciati, non emetteva più un suono, un lamento. La donna riccia le si buttò addosso, sull'addome, premendo col gomito. Altro sangue spruzzò fuori, misto a una bava verdastra. Poi più niente.

«Oddio.» mormorò Angelo, le dita sulle labbra.

La donna riccia si rialzò, prese fiato, guardò il corpo nudo di Raffaella e le si buttò di nuovo addosso.

«ESCE!» urlò la ragazzina accovacciata in fondo, e Angelo vide che aveva ragione, la testa era fuori. Ed era blu.

«Deve spingere!» strillò la ragazzina.

«Non può.» rispose la donna riccia con calma. «Non ha più forze. Non so se la recuperiamo. Faccio io, tu prendila.»

La ragazzina si sporse tra le gambe di Raffaella e si preparò a tirare. La donna riccia si buttò sulla pancia per la terza volta e il neonato schizzò fuori. Angelo non sapeva dove guardare, se sua figlia che apparentemente era nata morta o se sua moglie che sembrava stesse per morire.

«Non lasciatele.» disse a nessuno, forse a se stesso visto che stava per svenire.

«Adesso vediamo. Lei stia calmo che adesso vediamo.» rispose la donna riccia, che iniziò a trafficare là dove Raffaella sanguinava di più. Da lontano arrivò il primo vagito della bambina, a cui rispose un suono molto simile che sembrava uscire dalla gola della madre.

«Attaccatele una sacca, ADESSO!» ordinò la donna riccia senza smettere di cucire.

«Vivrà?» chiese Angelo.

«Eh, adesso vediamo.» rispose ancora la donna, ma nella voce c'era una nota di ottimismo, e Angelo, che era un fine musicista, la sentì chiaramente.

«Come si chiama?» chiese una voce alla sua sinistra.

«Angelo Pautasso.»

«No, non lei. La bambina.»

Per un attimo l'uomo non capì e si voltò smarrito a rimirare la faccetta appuntita della ragazzina. Poi gli fu chiaro, era nata una bambina, abbastanza viva da avere un nome. Angelo si voltò di nuovo verso la donna riccia.

«Lei come si chiama?»

«Carmela Licitra.» rispose l'altra in automatico, come se fosse prassi che le venisse chiesto in un momento del genere.

«Allora Carmela.» confermò l'uomo. «Si chiama Carmela.».

*

A cinquant'anni suonati Carmela Pautasso non si faceva ancora una ragione di come cazzo fosse venuto in mente a suo padre di chiamarla così. Va bene la gratitudine per l'ostetrica o la dottoressa o chiunque fosse che alle quattro di notte aveva salvato la pelle a lei e a sua madre, ma un nome è per tutta la vita, porca puttana! Aveva provato a farsi chiamare Mela, poi Carmen, ma alla fine il nome era troppo ghiotto per la fauna piemontese in mezzo alla quale era vissuta e se l'era dovuto tenere. Fino a quando la Santa Donna non era emersa nel panorama musicale italiano. Carmela Pautasso, ispettrice di polizia, era uguale spiccicata a La Pina, rapper e dj italiana, e, prima per prenderla per il culo, poi per salvifica abitudine, tutti avevano cominciato a chiamare Pina anche lei. In polizia ci era entrata presto per varie ragioni, una delle quali era un desiderio spasmodico di affrancarsi da una famiglia intellettuale e decisamente troppo melò per i suoi gusti. Pina era donna di fatti, concreta, spiccia, poco incline alle perdite di tempo. All'inizio la sua scelta aveva suscitato non pochi sorrisi, con il tempo si erano tutti spenti. Aveva fatto carriera seguendo le regole, usando la testa quanto bastava e i fatti per tutto il resto. Era affidabile, precisa, solida. Arrivata al ruolo di ispettrice si era fermata perché non le interessava andare oltre. Gliel'avevano proposto ma aveva detto di no, a lei quel lavoro piaceva. E lì era rimasta per dieci lunghi anni, stessa scrivania, stessi colleghi, pochi casi eclatanti e molte rotture di palle. Il linguaggio sboccato era l'unica nota stonata in un quadretto professionale da incorniciare, una volta si era presa pure una pubblica ammenda che le rodeva ancora oggi. Ma per quanto cercasse di starci attenta non ce la faceva.

Non ti faccio nienteWhere stories live. Discover now