"Everything ended there."

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Beth

Cadere nel vuoto era una sensazione orribile.
Le grida mi morivano in gola e mi era impossibile respirare, il cuore batteva furioso nel petto e e gli occhi lacrimavano per il vento che li colpiva, che mi sferzava il viso e mi spingeva i capelli su di esso: ciocche scure mi colpivano le guance già arrossate e le labbra, che ormai mi facevano male per tutti i colpi subiti.
Mi resi conto, con evidente difficoltà, che il cemento grigio si avvicinava ogni istante di più e che, contrariamente a quanto le persone che, col naso all'insù, fissavano la mia precipitosa caduta dal trentesimo piano: non volevo morire.
Spinta dalla forza di sopravvivenza, allungai le mani verso il basso e mi concentrai quanto più potevo: un flusso di energia si sprigionò dalle mie mani e, in contrasto con il modo in cui stavo precipitando, esercitò la spinta contraria, rallentando la velocità della caduta.
Riuscii, con evidente stupore, a raddrizzarmi – visto che, una volta saltata, avevo dato inspiegabilmente la schiena alla strada- e continuai a spingere quanto più potevo i miei poteri: rallentai così tanto che, una volta a terra, poggiai con delicatezza le scarpe sul cemento, con evidente stupore di tutte i curiosi che si erano fermati ad osservare la scena.
Avevo il fiatone, quando atterrai, e il cuore che per poco non mi esplodeva nel petto: alzai gli occhi verso l'alto, nel punto esatto in cui ero saltata, e riconobbi con poco stupore Vektor, che si era sporto quel tanto che bastava per seguire tutta la mia caduta.
Il tempo sembrò rallentare per qualche attimo mentre mi sistemavo e ricambiavo gli sguardi sorpresi dei curiosi, poi tutto tornò alla normalità quando, con un grido furioso ed un rumore di macerie, un essere verde si schiantava contro un edificio vicino, scatenando il caos.
Gente che gridava, correva e piangeva, evitava macerie o pregava il signore di salvarli tutti. Non sapevo cosa fare, se intervenire o lasciar correre, e poi la vidi: l'armatura lucente, dalle cromature dorate, schizzare verso l'essere verde lasciando dietro di se puzza di bruciato. Tony.
Sorrisi, nonostante non ci fosse nulla di felice in tutta quella situazione, e iniziai una folle corsa verso l'edifico colpito da quella cosa, allontanandomi quanto più potevo dall'edificio da cui ero saltata.
«Tony!» gridai, quanto più forte potevo, ma la mia voce si confuse insieme alle grida della povera gente immischiata in quel casino e così dovetti aumentare l'andatura finché, con un rombo assordante, una motocicletta non mi schizzò davanti tagliandomi la strada. Natasha, con la tuta aderente e i capelli rossi che ondeggiavano ad ogni suo movimento, smontò senza decelerare e mi guardò come se volesse uccidermi, quindi corse verso di me, pronta ad attaccarmi. La moto, alle sue spalle, si schiantò contro un auto in doppia fila e, ancora più dietro, Tony colpiva quello che capii essere Hulk con numerosi colpi principalmente alla faccia, che lo facevano soltanto arrabbiare di più. Di certo, tra tutti, non doveva essere lui quello incaricato per calmarlo.
«Nat!» gridai, alzando le mani in segno di resa «Sono io, Beth, lo giuro!» gridai ancora, chiudendo per un attimo gli occhi. Restai in attesa di un colpo che non arrivò e, quando riaprii gli occhi, Nat mi fissava con sguardo lucido e la bocca tremante.
«Sei davvero tu?» domandò, perché fidarsi di me doveva essere un bel rischio, dopo quello che era successo al Complesso. Annuii e, per rassicurarla ancora di più, ripescai un piccolo aneddoto.
«La mattina in cui mi hanno rapito, cercavo in tutti i modi di nascondere le mie chiappe al vento a Tony, ma quando sei entrata in cucina hai urlato come un'isterica, comprendendo bene cosa doveva essere successo soltanto la notte prima.» dissi, tutto d'un fiato. Lei restò ferma per qualche secondo, mentre intorno a noi imperversava il caos, poi mi abbracciò di slancio e mi stritolò come non aveva mai fatto prima. Si allontanò prima che potessi ricambiare e infilò una mano nella tasca della tuta, da cui tirò fuori un piccolo auricolare.
«Devo andare da Banner, adesso. Gli altri ti diranno cosa fare.» disse, poi mi baciò velocemente una guancia e si allontanò di tutta corsa verso Hulk e Tony, che continuavano a combattere senza risultati. Infilai velocemente l'auricolare e tornai verso l'enorme edificio alle mie spalle, con l'atrio distrutto e i vetri rotti in mille pezzi che cospargevano il marciapiede.
«Nat, ho davvero bisogno di te.» stava dicendo Tony, quando sistemai per bene l'auricolare ed entrai nell'edificio, calpestando rumorosamente i vetri che disseminavano il pavimento bianco e lucido. C'era un silenzio inquietante: la quiete prima della tempesta, immaginai.
«Ci sono, tu torna pure dagli altri. Qui ci penso io.» ordinò con voce autoritaria Nat, ed io mi girai di scatto verso la direzione in cui era corsa e dove era ancora possibile vedere Banner, già visibilmente più calmo.
«Noi qui avremmo bisogno di aiuto!» urlò quello che riconobbi come Steve, e automaticamente portai lo sguardo agli ascensori. Mi avvicinai a passo spedito, pigiai il bottone ed aspettai che le porte si aprissero.
«Ma perché diavolo hai lasciato il tetto, Steve?» domandò Tony, e me lo immaginai mentre volava velocemente verso l'edificio, con l'espressione furiosa e uno sbuffo esasperato pronto ad essere emesso.
«Avevo bisogno d'aiuto. Sono forze speciali, Tony. Americane, non Russe. Qui c'è decisamente qualcosa che non va.» disse, con voce seria, quello che immediatamente riconobbi come Bucky. Gli occhi mi si inumidirono per un attimo, ma le porte dell'ascensore si aprirono e le guardie al suo interno mi riportarono velocemente alla realtà. Mi chinai appena in tempo per evitare un colpo di pistola, poi colpii con un colpo secco la mano armata della guardia e la Calibro 9 finì sul pavimento con un tonfo secco. La spedii il più lontano possibile con un calcio e colpii velocemente la guardia, ormai disarmata, con un pugno dritto al viso e un altro allo stomaco. Gli afferrai la nuca e lo spinsi violentemente verso la parete dell'ascensore: la fronte scoperta cozzò contro la parete e l'uomo cadde sul pavimento, privo di sensi. Così mi concentrai sulla seconda guardia che, priva di pistola, si affrettò ad afferrare il manganello dalla cintura. Scattò in avanti e provò a colpirmi ma, spostandomi velocemente di lato, gli afferrai il polso della mano armata, che feci scattare verso destra: quello emise un suono innaturale e la guardia iniziò a gridare di dolore, inginocchiandosi e stringendo a se il polso ormai spezzato. Lo colpii al collo, in un punto particolarmente delicato, e così svenne, poi lo afferrai per il giubbotto e lo trascinai fuori, feci la stessa cosa con l'altra guardia ed entrai in ascensore, ormai vuota. Presi un profondo respiro, chiusi gli occhi per un attimo e poi pigiai sull'auricolare.
«A che piano siete?» chiesi, fissando i trenta bottoni bianchi in perfetto contrasto con le pareti interamente in acciaio. Ci fu solo silenzio dall'altra parte dell'auricolare, interrotto di tanto in tanto da qualche colpo sordo o qualche grida di dolore. Mi sembrò aspettare ore.
«Beth?» domandò, con voce titubante, Bucky. Poggiai la schiena ad una delle pareti e mi chinai per un attimo sulle ginocchia tremanti: mi sembrava passato un secolo dall'ultima volta che avevo sentito pronunciare il mio nome dalle sue labbra. Sorrisi, nonostante non potesse vedermi, ed asciugai una lacrima che, solitaria, era scivolata sulla mia guancia sfuggendo al mio controllo.
«Bucky...» mormorai, portando di nuovo lo sguardo alla sfilza di bottoni.
«Usi l'ascensore, piccola?» domandò una voce che conoscevo infinitamente bene, più corporea di quanto mi aspettassi, facendo scattare il mio sguardo verso l'atrio. Marcus, stretto nella sua tuta da combattimento, avanzava verso di me con un sorriso sornione sul viso, che di divertito o felice non aveva proprio nulla.
Da dove fosse arrivato, proprio non ne avevo idea.
Uscii dall'ascensore in fretta, per non essere intrappolata in uno spazio chiuso, e lo fissai con sguardo truce.
«Dovete resistere qualche altro minuto senza di me, ragazzi.» dissi, pigiando sull'auricolare.
«Cosa succede, Beth? Dove sei?» chiese, allarmato, Bucky. Non risposi e, per non essere distratta dalle loro voci mentre mi preparavo ad affrontare l'uomo che, per un periodo della mia vita, avevo amato, sfilai l'auricolare e lo infilai nella tasca della tuta aderente, simile a quella di Nat. «Sai,» iniziò Marcus, infilando le mani nelle tasche «quando Vektor mi ha detto che avevi di nuovo disubbidito e che, questa volta, voleva che fossi io a sistemare quella testolina ribelle che ti ritrovi, inizialmente ero contrario.» continuò poi, scuotendo appena il capo.
«E allora cosa ci fai qui?» chiesi, incrociando le braccia al petto. Lui sorrise e dalle sue labbra sfuggì una piccola risata derisoria.
«Perché non possiamo permetterci di perderti. Beth, proprio non capisci? Tra noi, sei quella che ha reagito meglio ai sieri, che ha subito le migliori trasformazioni. Sei il nostro miglior Soldato. Ma sei anche la più ribelle. Alla fine ho parlato con Vektor e, insieme, siamo giunti ad una conclusione: resettarti sarebbe uno spreco di tempo, dovremmo insegnarti tutto d'accapo, ma non possiamo nemmeno lasciarti nelle loro mani.» spiegò, annuendo alle sue stesse parole. Lo fissai esterrefatta, confusa, timorosa, poi arretrai di un passo. Mi resi conto che quelle parole nascondevano un significato molto più profondo e cupo, un esito che non avevo messo in conto: doveva uccidermi.
«Sei un parassita.» dissi, imprimendo tutta la mia rabbia, il mio disgusto verso la sua persona e la mia voglia di vendetta in quelle tre parole. Lui fece spallucce e poi scattò in avanti, alzò un pugno e provò a colpirmi in pieno viso: mi spostai giusto in tempo per evitare il primo colpo ma, ancora confusa, ricevetti il secondo in pieno stomaco.
Perché non aveva usato il controllo mentale?
Mi ripresi dalla confusione iniziale e lo allontanai con una vigorosa spinta, poi alzai una mano nella sua direzione e una forza invisibile lo colpì in pieno viso, facendolo barcollare appena. Corsi verso di lui e, afferrandolo per le spalle, gli rifilai un calcio in pieno stomaco, poi lo colpii in pieno viso con un gancio destro e, subito dopo, con un sinistro. Evitò un terzo colpo e mi colpì al ginocchio con la punta in ferro delle scarpe, digrignai i denti per il dolore ma non mi lasciai sopraffare: restituii il colpo, mirando però al fianco, che colpii senza nessuna difficoltà e poi, tirando dietro la testa, lo colpii dritto sul naso con una testata tanto forte che, per un momento, la vista mi si annebbiò. Lui cadde in ginocchio, portò le mani al naso sanguinante e, probabilmente, rotto e alzò lo sguardo furioso su di me. Fu in quel momento che, con un ghigno, si decise ad utilizzare i suoi poteri: lo sentii scivolare nella mia mente e, prima che potessi anche solo provare ad ereggere una barriera intorno a me proprio come avevo fatto con Monica, fui invasa da un dolore acuto che partì dalla testa e scivolò lungo la schiena, fino a raggiungere le braccia e le gambe. Caddi in ginocchio, tremante e con un grido di dolore intrappolato in gola, mentre Marcus si rimetteva in piedi e avanzava verso di me un po' zoppicante. Era un dolore terribilmente familiare, che avevo provato decisamente troppe volte: stava ricreando l'elettroshock a cui ero stata sottoposta come punizione dopo ogni tentativo di fuga fallito.
Una volta abbastanza vicino, si chinò verso di me e mi accarezzò piano una guancia, mentre gli occhi mi si riempivano di lacrime per il dolore e la disperazione.
«Mi dispiace...» sussurrò, scuotendo la testa e poggiando la sua fronte alla mia. Avrei voluto gridargli di lasciarmi stare, che non ero un oggetto da controllare e che, ormai, era arrivato il momento di mettere fine a tutta quella situazione. Posizionò una mano sulla mia tempia e il dolore aumentò, fino a squarciarmi l'anima e farmi gridare a squarciagola come non avevo mai fatto prima di quel momento: sentii qualcosa scivolare dal mio naso, probabilmente sangue, e la stessa sensazione sulle mie guance. Pregai che tutto finisse presto.
L'unica cosa che cessò, però, fu il dolore: il rumore secco di due colpi di pistola risuonarono nell'intero atrio, ed io sobbalzai per lo spavento di un rumore così forte in un posto così piccolo. Strabuzzai gli occhi e, con me, Marcus: lo vidi mentre spalancava la bocca e abbassava lo guardo sul suo torace. Lo imitai, ma a prima vista non c'era nulla.
Tornò con lo sguardo al mio mentre scivolava silenziosamente in ginocchio e poi, subito dopo, cadeva con un tonfo sordo su un lato: gli occhi ancora aperti e l'espressione di stupore ancora impresso sul suo viso.
«Mi dispiace, Beth.» mormorò Nat, a pochi passi da me, con ancora la pistola sospesa a mezz'aria. Si avvicinò a me un po' titubante, si chinò su di me e mi asciugò le guance coi palmi delle mani: si sporcarono di denso sangue, che non mi stupì più di tanto, ma che sembrò preoccupare infinitamente lei.
«Stai bene?» domandò, provando a far incontrare i nostri sguardi, ma il mio era puntato sul corpo ormai senza vita di Marcus. Scossi il capo e mi liberai dalla stretta di Nat, poi mi chinai sul corpo di Marcus e gli chiusi gli occhi, perché nonostante tutto non sarei riuscita a lasciarlo lì in quel modo. Era stato importante per me, e lui era venuto ad uccidermi, senza nessuno scrupolo.
L'immagine del suo viso si stampò nella mia mente e restò lì anche quando Natasha, infilata la pistola nella fondina, mi aiutò a tirarmi su e mi trascinò in uno degli ascensori.
Probabilmente mi avrebbe accompagnata per un bel po', proprio come tutto il resto.

Soldier. |Bucky Barnes/Avengers FanFiction|Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora