Epilogo.

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A svegliarmi, quella mattina, furono i leggeri raggi solari che penetravano dalle pesanti tende, scostate quel tanto da lasciar loro libero il passaggio. Mi rigirai nel letto senza aprire gli occhi, mugugnano in protesta del risveglio, ed allungai una mano sull'altra parte del materasso, che scoprii con stupore essere vuota. Tastai per qualche altro secondo, poi tirai su la testa dal cuscino ed aprii gli occhi quel tanto che bastava per assicurarmi che, si, era proprio vuota. Ero sola, in un letto decisamente troppo grande, ma sapevo bene che, quando mi ero addormentata, ero in ottima compagnia.
Lanciai una veloce occhiata alla sveglia sul comodino e scoprii, senza troppo stupore, che erano da poco passate le sette del mattino: sbuffai, poi mi tirai su e, stringendo il lenzuolo quanto più potevo al petto, poggiai la schiena alla testiera del letto. Feci scivolare pigramente lo sguardo per l'intera stanza, fiocamente illuminata dagli stessi raggi solari che mi avevano svegliata, e gattonai verso la fine del letto, dove recuperai la T-Shirt nera, ancora intrisa del suo odore. La infilai, stiracchiai le braccia sopra la testa e abbandonai il letto; poi, a piedi scalzi per non far troppo rumore, mi avvicinai alla porta-finestra lasciata aperta, che lasciava entrare un leggero vento mattutino.
«Dice che ci vorrà un po' più del previsto...» sentii, mentre poggiavo una spalla allo stipite della porta-finestra e piegavo leggermente il capo di lato, osservando attentamente le spalle larghe dell'uomo che mi stava davanti e che, occupato al cellulare, non si era accorto di me. Era raro vederlo girare a petto nudo, ma ogni volta era una vera e propria soddisfazione per gli occhi, così mi regalai del tempo per imprimere nella mia mente quell'immagine: osservai attentamente la vita sottile, la postura rigida, i muscoli tesi, la profonda cicatrice che lasciava spazio al braccio meccanico, i capelli che appena gli sfioravano il collo. Difficilmente avrei dimenticato una visione del genere.
«Senza criogenesi ci vuole più tempo, ma avevamo messo in conto...» si stoppò per qualche secondo, ascoltò col capo chino e poi sospirò «Steve, anche se Shuri riuscisse a sistemare tutto come ha fatto con me entro domani, lei ha comunque deciso di deporre le armi.» continuò poi, con un tono più duro. Non mi stupiva che stessero ancora parlando di me, lo facevano ogni volta e ormai non chiedevo più di non preoccuparsi per me.
Mi allontanai dallo stipite ed uscii sul piccolo balcone privato che mi regalava, ogni mattina da cinque mesi, una meravigliosa vista del Wakanda; poi, una volta abbastanza vicina, circondai la vita di Bucky e gli lasciai un debole bacio al centro della schiena, sulla spina dorsale. Lui sobbalzò appena, cosa che faceva di rado, e poggiò la mano libera sulle mie, intrecciate poco più su della cintura dei pantaloni. Le strinse appena, poi sospirò per qualcosa che aveva detto Steve dall'altra parte.
«Certo, glielo dirò. Ora però devo andare. Ci vediamo domani.» salutò, staccando la chiamata ed infilando il cellulare nella tasca dei pantaloni. Si rigirò nella mia stretta fino a trovarsi faccia a faccia con me, poggiò la schiena alla ringhiera del balcone e, stringendomi il viso tra le mani, si chinò su di me e mi lasciò un dolce bacio sulla fronte.
Mi beai del contatto delle sue labbra con la mia pelle e chiusi gli occhi per qualche secondo, poi reclinai la testa all'indietro e incastrai il mio sguardo al suo.
«Buongiorno...» salutai, sorridendo appena. Lui ricambiò il sorriso, poi mi sistemò una ciocca di capelli dietro l'orecchio e restò in silenzio, facendo scivolare lentamente lo sguardo su tutto il mio viso.
«Steve ti saluta,» disse, dopo un po' «Tony vuole farti sapere che il nuovo Complesso sarà "davvero figo", parole sue. Wanda e Visione vogliono farti sapere che stanno ufficialmente insieme, Clint insiste per farti conoscere la sua famiglia, Sam dice che la nuova tuta che gli ha progettato Tony è più potente di te e Nat ti abbraccia, ti bacia e ti abbraccia di nuovo.» aggiunse poi, con un'espressione così concentrata che mi fece sorridere. Annuii, felice che pensassero ancora a me, poi abbassai lo sguardo e, invasa da una tristezza dal gusto amaro, poggiai la fronte sul suo petto. Lui mi strinse a se e sospirò.
«Lo so...» sussurrò, baciandomi tra i capelli.
«Mi mancano un sacco.» dissi, scuotendo leggermente il capo. Lui mi allontanò quel tanto che bastava per stringermi il viso tra le mani e lasciarmi un dolce bacio a fior di labbra.
Dopo tutto quello che era successo, avevo deciso di chiedere aiuto: la mia mente era stata maltrattata per anni, e chi meglio del Wakanda poteva offrirmi l'aiuto di cui avevo bisogno? Re T'Challa aveva accettato senza alcun problema, scatenando l'evidente felicità di sua sorella Shuri, ma oltre alla decisione di rifugiarmi momentaneamente in Wakanda, avevo anche deciso di deporre le armi: gli avvenimenti avvenuti cinque mesi prima, su quel tetto, tornavano a tormentarmi ogni notte. Si ripresentavano sotto forma di incubi, flash veloci che mi svegliavano nel bel mezzo della notte e che non mi facevano più dormire.
Non avrei più combattuto finché non avessi avuto piena fiducia della mia mente, dei miei poteri: non volevo più perdere il controllo. Nessuno mi avrebbe fatto cambiare idea, nessuno aveva provato anche solo a farlo: solo la fine del mondo mi avrebbe spinta a combattere di nuovo, e per adesso andava tutto bene.
A distanza di cinque mesi dall'inizio del trattamento di recupero, riuscivo a dormire soltanto quando il sole era ormai alto o, in alternativa, stretta tra le braccia di Bucky, quando veniva a trovarmi.
E questo capitava circa ogni due settimane.
Il trattamento era solo agli inizi: restavo per ore intere collegata a macchine di cui non conoscevo il nome, con Shuri che saettava da una parte all'altra della stanza, spiegandomi quanto i processi fossero lunghi senza criogenesi, di quanto potesse essere doloroso in alcune fasi, ma a me andava bene così. Avevo rifiutato la criogenesi senza batter ciglio: certo, c'avrei messi più tempo del previsto per guarire, ma volevo vivere, nonostante la mia condizione mentale.
«Manchi anche a loro, lo sai.» mi rassicurò Bucky, sorridendo a labbra strette. Restammo in silenzio per un po', stretti uno nelle braccia dell'altro, poi mi allontanai e incrociai le braccia al petto.
«Come procedono le indagini?» chiesi, arricciando il naso. Bucky roteò gli occhi, esasperato, ed imitò la mia postura, inarcando un sopracciglio.
«Quante volte devo dirti che, quando siamo in questa stanza, non voglio parlare di nessuna missione?» domandò, facendo spallucce. Gli schiaffeggiai leggermente un braccio, divertita, ed arretrai di scatto quando provò ad afferrarmi per i fianchi.
«Dico sul serio.» protestai, puntandogli contro un dito. Lui poggiò di nuovo la schiena alla ringhiera del balcone e vi poggiò sopra le mani, per sorreggersi.
«Fury ci da una mano, ma crediamo si tratti di qualcuno ai piani alti, irraggiungibile coi mezzi che abbiamo. Per adesso, siamo in un vicolo cieco. E se Vektor non collabora...» spiegò, scuotendo appena il capo. Vektor, rinchiuso in un buco in fondo all'oceano - una vecchia prigione dello SHIELD riutilizzata da Nick- e raggiungibile solo tramite sottomarino, si rifiutava di parlare nonostante i continui interrogatori, che Fury aveva ironicamente affidato a Bucky: lui restava chiuso lì con Steve per giorni interi, ma nessuno dei due riusciva a cavargli un'informazione. Non parlavamo mai di mio fratello, se non in rare occasioni come quelle, perché solo il suo nome riportava a galla brutti ricordi, e Bucky aveva proibito a tutti di nominarlo quando venivano a farmi visita; nonostante ciò, Natasha mi riferiva qualche informazione di tanto in tanto, sotto mia esplicita richiesta, ma capitava di rado.
Lo fissai per un po', in silenzio, poi sospirai.
«Hai detto a Steve che vi vedrete domani, quindi...» sussurrai, dondolando sui talloni. Lui mi fissò per qualche secondo, prima di rispondere.
«Parto oggi pomeriggio.» annunciò, senza distogliere lo sguardo dal mio viso. Arricciai il naso, in disaccordo, anche se in realtà sapevo già che quelle erano le nostre ultime ore insieme: si era assentato da New York per quattro giorni, doveva rientrare al più presto. «Nat mi ha chiesto di venire, la prossima volta, quindi non sarò da solo.» aggiunse poi, facendomi l'occhiolino. Gli sorrisi, un po' più felice di qualche attimo prima, e spostai il peso da un piede all'altro: nonostante ciò, non volevo andasse via.
Ci fu qualche altro attimo di silenzio, poi Bucky fece scivolare lentamente lo sguardo sul mio mio corpo e inarcò un sopracciglio.
«Quella è mia?» chiese, avvicinandosi di qualche passo. Abbassai lo sguardo sulla T-shirt che indossavo, poi lo rialzai su di lui e intrappolai il labbro inferiore tra i denti, per soffocare un sorriso.
«Potrebbe.» dissi, arretrando verso l'interno della stanza. Lui mi seguì, serio come poche volte l'avevo visto e poi, una volta dentro, chiuse la porta-finestra dietro di se e tirò le tende. Si girò a guardarmi e, quando incrociai il suo sguardo, mi mancò il respiro: non mi sarei mai abituata ai suoi occhi carichi di desiderio.
Non mi sarei mai abituata totalmente a lui, a quella parte di lui che avevo lentamente scoperto, alla sua mancanza, alle sue braccia, ai suoi baci o ai suoi sguardi, alla sua voce roca di prima mattina, o ai nostri corpi che s'incastravano alla perfezione.
Dopotutto, era Bucky.
Non ci si abituava mai a lui.


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Soldier. |Bucky Barnes/Avengers FanFiction|Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora