33. Il più bello della festa

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"... E questo è quanto" finisco di spiegare al gruppo di persone radunate attorno al tavolo.

Il momento di silenzio che segue è greve di pensieri. Ho l'impressione di udire il brusio del rimuginare interiore dei tre astanti, mentre i loro occhi ripassano sulla planimetria stropicciata.

I globi incantati rischiarano la stanza di una luce soffusa, argentea, che si riflette sulle immagini sacre appese alle pareti. Un tempo questa era una sagrestia, ora è il luogo in cui decretiamo il destino di Ys. O il nostro.

Il primo a schiarirsi la gola è Bev. "Mi sta bene tutto, ma non il gas... Come l'hai chiamato?"

"Gas panace."

"Non porteremo quella roba all'interno del mio palazzo."

"Quella roba" non può fare a meno di puntualizzare Charlez. "È l'arma più potente che abbiamo. L'unica degna di questo nome, se proprio vogliamo essere pignoli."

"Io sono l'arma più potente che abbiamo" ribatte Bev.

"Con tutto il rispetto" interviene Olivia. "Tu sei uno. Il palazzo, invece, sarà pieno di stregoni."

La gigantesca, spericolata Olivia. Quasi non credevo ai miei occhi quando Charlez si è presentato in sua compagnia. Sarebbe alta anche se fosse un uomo, non ha ancora cambiato il ridicolo taglio a scodella in cui costringe i suoi capelli biondi ed è la guerrigliera più coriacea che abbia mai incontrato.

Non avrei potuto sperare di meglio.

La scorsi attraverso la cortina di proiettili che crivellava l'aria e faceva zampillare la radura di schizzi di terra e schegge di pietra. Olivia latrava ordini alla sua divisione sopra il fragore delle esplosioni. Era la più vicina ad aprire un varco nella tenaglia della morte che la milizia schiavista ci aveva stretto attorno. Ed era una dei pochi ad avere un fucile, la cui canna luccicava sotto i raggi del mattino come un vessillo di gloria.

Stavo per fare cenno agli uomini che erano con me di raggiungerla, quando accadde.

La granata rotolò sull'erba fino a pochi metri da lei. Gridai un avvertimento, ma era troppo tardi.

Il boato che seguì mi lasciò cieca e sorda, non seppi mai per quanto tempo. I miei sensi tornarono ronzando e scoprii che l'esplosione mi aveva scagliata a diversi metri di distanza, tra le radici di un pino ai margini della radura. Un rivolo caldo e appiccicaticcio mi colava da una tempia, dove avevo sbattuto contro il tronco.

I miei uomini non c'erano più. Si stavano dileguando in una fuga scomposta lungo il pendio. Chi restava aveva gli occhi sbarrati e il ghigno della morte sulla faccia.

Gemetti e cercai di alzarmi, ma delle mani mi avvinghiarono le braccia. Il petto. La gola. Il mio cuore smise di battere quando riconobbi i soldati bene armati e ben vestiti della milizia schiavista.

Pregai che mi uccidessero, ma non avevo neanche più la forza per farmi considerare una minaccia.

Scoppiai a piangere come una bambina quando il metallo del collare che stavano per mettermi addosso mandò un bagliore.

"Io non sono come gli altri" obietta Bev.

"Confermo" rilancio. "L'ho visto in azione. Non possono fare niente per fermarlo."

Ometto di rivelare che quel Bevin è rimasto nell'arena insieme ad Alec. L'inumana fierezza, l'abbandono all'estasi della distruzione si sono disciolti nella sabbia insieme al sangue dell'uomo che amava come un padre. Ma dirlo adesso non gioverebbe a nessuno.

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