Capitolo 539: Chi vi vuole bene, vi fa paura.

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Caterina e Galeazzo uscirono da Ravaldino a galoppo sostenuto. Filando dietro alla madre, senza fare domande, il ragazzo si trovò a spingere il proprio cavallo da guerra in una sorta di inseguimento nei boschi della riserva di caccia privata della Tigre.

Non fu facile, per lui, tenere a freno la propria bestia, mentre lo stallone cavalcato dalla Contessa si inerpicava agilmente sul terreno un po' scosceso o sgusciava tra le piante senza alcun problema.

Quando finalmente arrivarono alla radura protetta che la Leonessa stava cercando, fermarono i cavalli quasi all'improvviso, tanto che, per non far imbizzarrire il suo, il Riario fu costretto a tirare le redini con tanta forza da farsi quasi male alle mani.

Caterina scese di sella in fretta e andò a legare lo stallone a una pianta, aspettando che il figlio facesse altrettanto.

"Prendi le armi e gli scudi." gli ordinò, cominciando a arrotolarsi le maniche dell'abito – il suo solito vestito da lavoro un po' rovinato – e schiacciando gli occhi contro il sole di luglio che illuminava il piccolo spiazzo erboso.

Galeazzo fece quel che gli era stato detto e poi, un po' titubante, porse una spada e uno scudo alla madre.

Questa ringraziò con un cenno del capo e poi, squadrandolo un istante, gli disse: "Levati il giubbone. Fa troppo caldo. Ti basta la camicia."

Il ragazzino, che in effetti aveva già sudato parecchio durante la cavalcata, eseguì ancora una volta l'ordine, senza discutere e senza provare a opporsi. Era ubbidiente e molto solerte nell'eseguire gli ordini. Almeno da quel lato, stava pensando la Sforza, aveva il tratto giusto.

"Avanti. Fammi vedere cosa sai fare." lo invitò, dopo essersi assicurata lo scudo, un grande pavese rettangolare, al braccio.

Il figlio, che invece si era tenuto uno scapezzato un po' rovinato su una delle punte, benché un po' sorpreso da quella proposta, si affrettò a prepararsi. Fu veloce, ma, malgrado ciò, fece appena in tempo a imbracciare lo scudo, prima di sentirlo vibrare per un fortissimo colpo inferto dalla spada da una mano e mezzo della Tigre.

Vacillò, riuscendo a non cadere per un soffio, ma ancor prima di recuperare del tutto l'equilibrio, si era abbatto su di lui un altro fendente e poi un altro ancora.

Non faceva nemmeno in tempo a sollevare la sua spada da lato, benché fosse più maneggevole e leggera di quella della madre, che subito la donna lo incalzava, cercando di farlo cadere e di fiaccarlo in ogni modo.

Ciò che lo stava mettendo più in difficoltà, spaventandolo tanto da togliergli il fiato in più occasioni, non era tanto la forza – notevole – e la rapidità – invidiabile – della Contessa, quanto il fatto che le armi che stavano usando fossero da battaglia e non da allenamento.

Avevano un filo pressoché perfetto. E loro erano senza armatura, e senza elmo. Solo lo scudo poteva proteggerli da un colpo troppo forte o troppo preciso. A ben pensarci, a Galeazzo parve un'autentica follia.

Con un ringhio, Caterina riuscì a gettare in terra il figlio che, nell'urto con il suolo, perse la presa sullo scudo, restando con solo la spada a fargli da difesa.

Rotolò per qualche metro, allontanandosi un po' da lei, per riprendere fiato. Mentre entrambi respiravano con forza, inalando l'odore forte e pieno della terra calda e dell'erba fresca, il Riario si chiese che cosa avesse davvero in mente sua madre.

Di contro, Caterina, si poteva dire abbastanza soddisfatta della prontezza del figlio, e, ancora di più, del fatto che non si fosse lamentato e non avesse provato nemmeno una volta a chiederle di smetterla o a domandarle spiegazioni per quell'aggressione improvvisa.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (Parte IV)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora