Capitolo 588: Amant alterna Camoeane

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Bernardino da Corte era stato pronto già di primissimo mattino a lasciare la rocca, e, su intercessione diretta di Gian Giacomo da Trivulzio – che si era ammantato del privilegio di far rispettare l'antica usanza milanese, che voleva in salvo i beni e i servi di chi si arrendeva volontariamente – era riuscito a portare senza problemi fuori dal palazzo di Porta Giovia tutti quelli che vi erano rimasti e anche una discreta quantità di oggetti e vettovaglie.

Quasi nessuno, però, si era accorto della sua partenza, perché gli occhi di tutti i milanesi erano puntati sulla Porta Ticinese, attraverso cui era passato il re di Francia.

Si vociferava – come fosse riuscita a trapelare la notizia tanto celermente era difficile capirlo – che la sera prima Luigi XII avesse incontrato alle porte di Pavia niente meno che Isabella d'Aragona e che i due fossero stati visti insieme ancora a notte fonda a discutere e condividere una coppa di vino.

Quanto ci fosse di vero e quanto fosse stato dettato dal desiderio di pettegolezzo non era facile saperlo, ma di certo una punta di verità doveva esserci, dato che altri illustri questuanti si erano visti rifiutare un'udienza proprio perché il francese era già occupato.

Tra i grandi estromessi figuravano anche uomini come Galeazzo Sanseverino, i due fratelli Bentivoglio e Francesco Gonzaga che, quel 18 settembre, si erano dovuti accontentare di accompagnarlo nel suo ingresso trionfale.

Intorno a mezzogiorno, mentre il cielo andava via via annuvolandosi, complice una cappa di calore che al francese pareva più adatta alla canicola di luglio che non a quei giorni che avrebbero dovuto portarli verso l'autunno, Luigi accettò di buon grado un grande banchetto allestito in suo onore alla corte vecchia e lì, tra il mangiare saporito e il bere abbondante, finalmente il più mondano tra gli italiani presenti – ovvero il Marchese di Mantova – aiutato anche dal Duca di Savoia, riuscì ad avvicinare il re Cristianissimo e iniziare a scambiare con lui qualche importantissima chiacchiera.

"Lo sapete perché ho deciso così." disse piano Caterina, intingendo ancora una volta il pane nell'intingolo che accompagnava lo stufato di cervo: "Le porte non sono chiuse, ma non possono nemmeno restare aperte a tutti. Giusto stamattina c'è stato un morto per la peste, e non voglio per nessun motivo che Forlì venga decimata solo perché ho ascoltato le lamentele di qualche mercante che non ha saputo dimostrare la sua provenienza..."

Luffo Numai le diede silenziosamente ragione e poi si servì ancora un po' di verdure. Era da qualche giorno, ormai, che il Consigliere cenava sempre alla rocca. Non lo faceva perché non desiderasse passare la sera con la propria famiglia, ma perché quello era uno dei pochi momenti in cui era facile trovare la Tigre recettiva a certi discorsi.

Durante la giornata, infatti, la donna era immersa fino al collo in questioni prettamente belliche, negli addestramenti, nel controllo delle fortificazioni e nell'organizzazione dell'esercito. Quando calava il buio, invece, se non scappava subito in stanza con il suo amante, la si poteva trovare nella sala dei banchetti e discutere con lei delle questioni più varie.

"Comunque sia – riprese la Contessa, asciugandosi le labbra con il dorso della mano – non mi pare che il commercio ne stia risentendo più di tanto. Credo che sia la siccità, il vero problema."

"Nel riminese dicono che stia piovendo." commentò, vago, Numai.

"Mi auguro, allora, che presto si metta a piovere anche da noi." fece eco la Sforza.

Al tavolo con lei e Luffo c'erano solo Bianca e il castellano Feo. Galeazzo li aveva incrociati per pochi minuti, e poi si era ritirato presto perché desideroso di andare a coricarsi: era stanco e il mattino dopo avrebbe dovuto svegliarsi prima dell'alba per andare con il Capitano Mongardini a ispezionare una parte delle mura cittadine.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (Parte IV)Where stories live. Discover now