Capitolo 557: Vipereos mores non violabo.

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I colpi al corpo ormai senza vita che le stava davanti risuonavano sinistri e ovattati nella cella illuminata a giorno. Non vedeva nemmeno più il viso, tumefatto e distrutto dell'uomo che aveva ucciso, ma non le importava. Voleva solo colpirlo, sentirlo inerte, punirlo per quello che le aveva fatto.

La Tigre diede ancora un calcio alla carcassa che aveva ai suoi piedi e poi, con un gesto secco, rivoltò il cadavere per guardarlo meglio. Quando si accorse che invece del solito Ludovico Marcobelli, a essere caduto sotto i suoi colpi era stato il suo Giacomo, si svegliò di colpo e senza fiato.

Caterina si rigirò nel letto, la confusione che l'aveva colta nell'ultima parte dell'incubo appena finito che si mescolava con l'aria umida e calda di quella notte. Anche se avevano lasciato la finestra spalancata, quella camera assomigliava a un forno.

Si tolse con una certa noncuranza dalle braccia del suo amante. Anche il suo corpo caldo la infastidiva. Giovanni da Casale non si svegliò, andando avanti a dormire come un sasso. Quella sua propensione spiccata al sonno pesante, pensava la Sforza, avrebbe potuto essere un limite, in un soldato, ma a lei, in occasioni come quella, faceva comodo.

Sentiva ancora la sensazione viscida e sorda dei pugni che aveva dato nel sogno sulle nocche delle mani e, massaggiandosele lentamente, si chiese come potessero essere tanto vividi quegli incubi che la tormentavano da anni.

Cercava di scacciare dalla mente l'immagine terribile e abbruttita del suo Giacomo tumefatto e sventrato, con una gamba ridotta a sfilacci di carne e schegge d'osso, ma più si sforzava di pensare ad altro, più i ricordi del suo corpo ricomposto – per quanto era stato possibile – dai Battuti Neri la tormentava.

Con il respiro lento di Pirovano accanto a lei, si mise lentamente seduta e si prese il volto tra le mani. Mancava meno di un mese al quarto anniversario dell'assassinio del suo secondo marito. Se ci ragionava, le sembrava passato molto, ma molto più tempo.

Si voltò un istante verso il milanese. Era scoperto, prono, il viso in parte affondato nel cuscino e un braccio ancora proteso verso di lei. Si erano addormentati abbracciati, quella notte. Quando lei lo aveva cercato, rientrata dopo il rapido scambio di battute con il castellano, aveva chiuso tutto fuori dalla loro camera. Le preoccupazioni, le ansie e anche la rabbia, per quanto le era riuscito di farlo.

E così, passato il momento di passione, l'aveva voluto stretto a sé, a darle conforto e calore, e lui non si era fatto pregare.

Non gli aveva fatto cenno della pozione finita, né dell'ansia che quel fatto le aveva messo in corpo.

Non aveva voluto agitare anche lui, né rischiare di scatenare un litigio. Aveva solo bisogno di sentirlo vicino a lei. L'aspettavano giorni, settimane e mesi d'inferno, lo sapeva da tempo, e non poteva permettersi di perderlo.

Capì subito di non essere nelle condizioni di rimettersi a dormire. Anche se il consiglio del suo medico – e anche quello di sua figlia – era stato di riposarsi il più possibile, Caterina era certa di non poter fare meglio di così.

Si alzò in silenzio, controllando sempre che il suo amante dormisse ancora. Si prese un momento, prima di vestirsi, per guardarlo alla luce pallida della luna che passava dalla finestra aperta.

La sua schiena, chiara e muscolosa, le sue gambe forti, e i suoi capelli corti e neri la stavano quasi richiamando tra le lenzuola. Avrebbe potuto svegliarlo e reclamarlo per sé ancora una volta, ma non lo fece.

Infilò il suo abito di raso tanè e poi, colta da un'idea improvvisa, lasciò la stanza, sapendo benissimo dove dirigersi.

Attraversò la rocca quasi in punta di piedi. A parte le ronde sui camminamenti, sapeva che a quell'ora non c'era nessuno in giro, ma si mosse comunque come se dovesse stare attenta a non disturbare nessuno.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (Parte IV)Donde viven las historias. Descúbrelo ahora