C597UomoPrudentissimo,cheDiPrivataFortuna aveva presa grandissima reputazione

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Caterina, uscita dalla rocca, aveva cavalcato veloce e sicura fino al centro della sua riserva di caccia. Aveva messo al sicuro il suo stallone e poi si era appostata, prediligendo prede poco impegnative.

Mentre puntava con l'ultima freccia della sua faretra un'ingenua beccaccia, la Contessa si era trovata a ricordare le battute di caccia in grande stile che a volte faceva suo padre, nel pavese.

In quelle occasioni mobilitava intere mute di cani, decine di inseguitori e altrettanti cacciatori di supporto. Suo padre aveva un fiuto speciale, per la caccia. Sapeva scegliere i momenti migliori e i posti più vantaggiosi, finendo sempre per riempire i carretti del seguito con fior fior di trofei.

A volte si spingeva sulle colline più alte, nelle terre dei Dal Verme, andando a caccia di orsi. In quei casi, lei non lo accompagnava, perché il Duca aveva sempre paura che le potesse capitare qualcosa, una fatalità, un animale irruento che la ferisse, o anche solo un incidente con uno degli altri cacciatori.

"Non mi perdonerei mai, se ti capitasse qualcosa di male per colpa mia." le parole di Galeazzo Maria Sforza ancora risuonavano nelle orecchie della Tigre come un sinistro monito.

Abbassando lentamente l'arco, la Leonessa guardò impotente la beccaccia volare via. Si era distratta e aveva fatto troppo rumore con la corda.

Con un sospiro, decise di abbandonare le armi, per quel pomeriggio, e tornò così verso il suo purosangue. Alla sella c'erano appesi lepri, uccellagione e perfino un paio di conigli particolarmente paffuti. Avrebbe preferito banchettare con un cosciotto di cervo, ma tanto valeva sfruttare ciò che il bosco le aveva offerto.

Fiutando l'aria che cominciava a sapere un po' d'autunno, la donna prese per le briglie il cavallo e lo condusse lentamente alla casina.

Stava ancora rimuginando su come suo padre fosse stato capace di farle male anche senza portarla con lui alla caccia all'orso, quando, per caso, si sfiorò il tascone dell'abito, sentendovi dentro ancora la lettera di Flavio.

Quel dettaglio, così banale, ebbe il potere di trascinarla di nuovo al presente, costringendola a pensare alle contingenze del momento.

Sistemò lo stallone nella rimessa, staccò una delle lepri dalla sella e poi entrò nella Casina. L'aria immobile e il senso di irrealtà che le dava tornare in quel piccolo rifugio la investirono con prepotenza. Diede uno sguardo veloce al letto, poi al tavolo e infine andò al camino. Si affaccendò fino ad accendere un fuocherello scoppiettante e poi, cominciando a valutare la posizione del suo Stato nello scacchiere politico italiano, si mise a scuoiare la bestiola.

Quando arrivò a mettere la carne sul fuoco, le idee nella sua testa avevano cominciato a filare come di dovere. Sapeva di avere poche possibilità e sapeva anche che Federico Flavio aveva fatto il possibile.

Tuttavia aveva bisogno di una visione più tecnica riguardo i francesi. Doveva mandare un ambasciatore diverso, a Milano, qualcuno che capisse molto di più i reali potenziali del nemico e che, comunque, fosse ritenuto innocuo.

L'unico nome che sembrava rispondere a entrambe le caratteristiche era quello di Michele Marulli.

Il bizantino, noto per la sua cultura e per le sue vicende sentimentali, non era ritenuto praticamente da nessuno un esperto d'arte bellica, ma Caterina, da quando l'aveva al suo soldo alla rocca, aveva avuto modo di capire quanto invece fosse acuto e attento, in quell'ambito. In più, ben pochi sapevano quanto loro due fossero legati a filo doppio dal ricordo di Giovanni, tanto meno quanto stessero intessendo trame per salvare, al momento debito, i figli di lei.

Controllando che la fiamma rosolasse, ma non bruciasse, la lepre, la Sforza abbozzò un sorriso, pensando che almeno quel punto era deciso. Appena fosse tornata a Ravaldino, avrebbe visto Ridolfi, come deciso, ma, subito dopo, avrebbe convocato Marulli.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (Parte IV)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora