Capitolo 564: Sui cuique mores fingunt fortunam hominibus.

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Non era valso a nulla, riuscire a ferire a una spalla, con una palla d'archibugio, Ranuccio da Marciano. Anzi, forse Paolo Vitelli si era incattivito ancor di più, nel vedere il suo secondo abbandonare il campo per un motivo del genere.

Gorlino Tombesi aveva capito un po' di cose di Vitelli, combattendoci contro. Dalla sua ostinazione nel bombardare la rocca Staimpace, al modo in cui gestiva gli attacchi e i ripieghi, e poteva quasi vederlo mentre, con un'espressione di delusa amarezza, osservava Ranuccio ritirarsi e cercare l'aiuto dei cerusici per quello che, nell'ottica di un grande condottiero come lui, altro non era se non un graffio.

"Rafforzate il lato! Il lato!" fece appena in tempo a gridare Tombesi, quando si accorse che sul fianco della rocca alcuni fiorentini stavano riuscendo a scalare il muro.

Il fossato era stato riempito fino all'orlo di detriti e cadaveri e, ormai, era usato senza alcun problema dagli assedianti. Gorlino era certo di poter contare almeno duecento fiorentini morti, ai suoi piedi, ma i pisani erano sicuramente di più.

"Al lato!" gridò di nuovo, ma la sua voce venne completamente coperta dal rombo di una nuova scarica di cannoni e, prima che Tombesi potesse capire cos'era successo, uno dei muri più deboli della rocca crollò permettendo ai nemici di entrare come un fiume in piena.

A quel punto, pensava il ravennate – pisano per condotta – l'unica cosa che si poteva fare era cercare di sopravvivere e scappare. Avevano retto anche troppo. Erano giorni, ormai, che venivano bombardati e stava per scendere la sera anche su quel dieci agosto.

Il sole calava rapidissimo all'orizzonte, e il caldo comunque non demordeva. I pisani erano stremati, terrorizzati e affamati. I fiorentini, invece, sembravano freschissimi, pronti ed entusiasti.

"Ritirata! Ritirata!" gridò Gorlino, stando in un punto abbastanza sopraelevato, senza più curarsi di pestare i corpi di quelli che fino a poco prima erano stati suoi sottoposti e suoi amici: "Ritirata!"

Stava per invocare la ritirata per una quarta volta, ma la voce gli morì in gola con un singulto strozzato. Come in un contrappasso dantesco, sentì il bruciore atroce di un colpo d'archibugio colpirlo alla spalla, perforando prima la cotta di maglia, poi gli abiti e infine la pelle, i muscoli e frantumando le ossa.

Ancora contratto per il dolore improvviso e tremendo, ne avvertì un altro, trafittivo, più arcaico, più noto al suo corpo. Abbassò lo sguardo e, nel mezzo della coscia, vide conficcata una freccia.

Sopraffatto dal dolore, svenne.

Caterina aveva deciso di tenere quella mattina un Consiglio di Guerra a cui, però, avrebbero partecipato solo alcuni tra i suoi collaboratori più stretti.

Anche se si stavano già registrando nuovi casi di peste, adesso che Giovannino stava meglio, la Tigre si sentiva molto più libera di dedicarsi agli affari di Stato e, soprattutto, a quelli bellici.

Stava attendendo con trepidazione notizie da Firenze, ma immaginava di dover pazientare ancora qualche giorno, perciò era necessario tenersi impegnata in altro modo. Aveva preferito evitare il Quartiere Militare, quel giorno, e l'aveva fatto principalmente per due motivi. Prima di tutto, l'Oliva le aveva fatto sapere che aveva novità sugli spostamento nello scacchiere d'Italia, e quindi la donna trovava necessario e doveroso approfondire prima quelle notizie. E, in secondo luogo, da quando era sfebbrato, il suo figlio più piccolo sembrava non volerne sapere di stare con le balie.

Aveva dato letteralmente il tormento a Bianca, nell'arco dell'ultima giornata, reclamandola di continuo e così la Leonessa aveva deciso di darle il cambio, per permetterle di fare un po' quello che voleva, senza l'impaccio di un bambino piccolo appresso.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (Parte IV)Where stories live. Discover now