Capitolo 26

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Erano passati alcuni giorni dal rientro a San Pietroburgo, giorni che trascorsi praticamente da sola, avvolta in quel silenzio disarmante con la sola compagnia del sole che sorgeva e tramontava inesorabilmente, segnando la fine e l'inizio di giorni inesistenti, e con la neve che cadeva lenta ed incessante, imbiancando il grande giardino che circondava la villa.
Masha era venuta solo l'indomani del nostro rientro e poi non si era più vista, motivi di famiglia aveva detto, ma in quell'unico giorno in cui eravamo state insieme mi era sembrata molto preoccupata, sovrappensiero, e quando le chiesi cosa avesse mi diede una risposa sommaria ed evasiva.  Ottimo. L'unica persona che rendeva quella mia prigionia meno avvilente mi aveva lasciata sola.
Non volevo vedere Andrej, anzi cercavo di evitarlo il più possibile e, anche se avessi voluto trascorrere del tempo con lui, non ci sarebbe stato.  Non era tornato neanche a dormire a casa in quei giorni e per quanto cercassi di convincermi che non mi interessava dove era, cosa faceva, con chi era non riuscivo a smettere di pensarci, era più forte di me. Dove si era cacciato? Perché era scomparso così? L'unica cosa che avevo trovato una mattina di 3-4 giorni prima era un post-it lasciato sul tavolo della cucina, con scritto "Non tornerò per alcuni giorni, non fare cazzate e controlla la ferita. Ormai dovresti potertene occupare anche senza il mio aiuto". Molto cortese no? D'altronde non mi sarei potuta aspettare di meglio.
Il mio russo andava migliorando così da permettermi di comprendere i libri della sua piccola biblioteca, la sola compagnia su cui potevo fare affidamento. Passavo praticamente le mie giornate a leggere, divorando quei libri che almeno potevano portarmi lontano dalla miserabile realtà che mi circondava. L'unico cambiamento, a parte i libri che una volta finiti venivano prontamente sostituiti, era la location della mia zona di lettura: avevo provato ogni divano, ogni poltrona, ogni scalino ed ogni tappeto della casa, così da poter provare la sensazione di spostarmi inseme ai personaggi delle storie.
In quella situazione di alienante solitudine, alimentata da una disperata voglia di evasione mentale che si traduceva in banale fantasia, a tenermi compagnia c'era una strana tosse che mi scuoteva sempre più. I primi colpi iniziarono un paio di giorni dopo il rientro a casa ma non ci feci caso, all'inizio sembrava solo una tosse di gola, dovuta ad un comune  raffreddamento perché beh, per quanto mi fossi coperta, un po' di freddo l'avevo preso sicuramente a Mosca, con tutti quegli sbalzi di temperatura, ma più passava il tempo più la tosse aumentava.

Qualla sera ero raggomitolata su una poltrona del salotto, avevo mangiato solo un pezzo di pane e una mela, non avevo nessun appetito anzi un senso di spossatezza mi perseguitava da tutto il giorno, non avevo avuto la forza neppure di leggere e mi sentivo assonnata, scossa da brividi di freddo. Sicuramente mi stava salendo la febbre ma non mi importava molto, sarebbe passata così com'era venuta. Girai lo sguardo verso il portone in legno e mi resi conto che era già passata una settimana, forse 8 giorni, da quando Andrej si era volatilizzato praticamente nel nulla e avevo come l'impressione che non sarebbe tornato molto presto. Beh, meglio per me no? Sarebbe dovuto essere così però... sentivo come una... mancanza? Strizzai gli occhi e scrollai velocemente le spalle, come a voler scacciare quel pensiero parassita dalla mente, ma cosa mi passava in mente? Stavo iniziando a delirare, sì, non c'erano altre spiegazioni.
Un altro colpo di tosse mi riscosse e mi lasciai sprofondare tra i cuscini di quella poltrona, attorcigliata ad una coperta di lana, ma quella dannata sensazione di freddo, nel cuore e nel corpo, che sembrava congelarmi le ossa non voleva passare e i colpi di tosse erano sempre più ravvicinati e forti, quasi da farmi piegare in due. Così trasportata dal malessere tirai le ginocchia al petto e appoggiai la testa sullo schienale, lasciando che la mia mente mi seviziasse con ricordi e pensieri, aumentando quella sensazione di annebbiamento che la febbre mi causava. 
Socchiusi gli occhi e in un attimo fui di nuovo lì: il confortevole salotto di mia casa prese forma nella mia mente, la luce calda del lampadario rifletteva sul nero lucido del pianoforte, i miei genitori seduti sul divano con un calice di vino che mi guardavano dolcemente mentre si tenevano per mano, mia sorella seduta accanto a me che guardava ammirata le mie dite scivolare sui tasti e poi c'ero io, sorridevo e non avevo altre preoccupazioni che non fossero gli esami universitari. Ero felice, avvolta dalla musica e da quella speciale normalità. La me di quel momento guardava quella che ragazza che si muoveva in quei lontani ricordi, forse una volta ero stata io, difficile a dirsi perché non era rimasto nulla in me di quella gioia di vivere, di quella beata inconsapevolezza che mi faceva ignorare l'esistenza del mondo in cui mi ero ritrovata per colpa di un destino spietato e maligno. 
Il mio bellissimo ricordo, quella dolce illusione che mi fece scivolare una solitaria e traditrice lacrima sulla guancia, venne interrotta bruscamente dal rumore di una porta che veniva chiusa, facendomi spalancare gli occhi. La luce soffusa del salone venne rischiarata dalla lampadina dell'ingresso che mi riportò alla realtà, facendomi sentire annientata da una profonda nostalgia che mi spezzo il cuore esattamente a metà, come avrebbe fatto un colpo d'accetta su un tronco. Solo in un secondo momento vidi Andrej che mi si avvicinava e saltai giù dalla poltrona, nonostante i dolori che la febbre mi procurava.
<< Ti aspetto nel mio studio tra 10 minuti. >> mi disse con un'espressione assolutamente imperturbabile, fermandosi a due passi da me, salvo poi girare su stesso e avviarsi su per le scale.
L'ultima cosa che mi andava di fare in quel momento era suonare per lui, sarebbe stata la totale distruzione di quell'immagine che, anche se più sbiadita, era ancora lì, davanti ai miei occhi, però... cosa avrei dovuto dirgli?
"No, non voglio venire perché stavo ripensando a quando suonavo per la mia famiglia"? Non mi sarei mostrata debole, non più.
Mi ricomposi quel po' che bastava: ravvivai i capelli con le mani, lisciai il maglione e i jeans e strinsi i lacci degli anfibi che avevo ai piedi. Bene. Dovevo andare.
Salendo le scale cercai sostegno nel corrimano mentre sentivo i polmoni bruciare, l'aria che stentava a soddisfare il mio fabbisogno di ossigeno e arrivata in cima avevo il fiatone, non riuscivo a capire cosa mi stava succedendo ma la situazione era più grave di quanto potessi pensare. Mi dovetti appoggiare con un braccio alla parete per reggermi in piedi mentre il respiro tornava regolare, accompagnato da un forte colpo di tosse che mi graffiò la gola sulla quale appoggiai la mano destra, come se quel gesto istintivo potesse portare un po' di conforto a quella parte del mio corpo che doleva terribilmente. Quel bruciore costante, quei dolori diffusi mi facevano sentire così stanca e le gambe mi sembravano talmente molli al punto da non riuscire più a sostenermi. L'unica cosa che avrei voluto fare era lasciarmi scivolare a terra e restare lì, raggomitolandomi su me stessa per cercare di riscaldarmi da quel freddo polare che mi scuoteva con forti brividi sin dentro le membra, ma cercai di fare violenza su me stessa e mi trascinai, passo dopo passo, fino alla porta del suo studio. Bussai un paio di volte quasi aggrappandomi alla porta e, quando dall'altra parte sentii un cupo "avanti", entrai nella stanza muovendomi il più velocemente possibile verso lo sgabello davanti al piano, grata per aver trovato quel supporto a cui mi ancorai come ad uno scoglio.
Lui era seduto dietro la grande scrivania, le maniche della camicia arrotolate fino a metà avambraccio e gli occhi puntati su alcune delle tante scartoffie che lo circondavano, non sembrava minimamente interessato alla mia presenza così tornai a fissare il piano ancora chiuso e un libello di spartiti lasciato sopra di esso. La testa mi doleva talmente forte che anche il mio stesso respiro riusciva a disturbarmi ma ormai ero lì, avrei concluso quella che sarebbe stata la mia peggiore "esibizione" e mi sarei andata a chiudere nella mia stanza, sperando che qualunque fosse la malattia che mi aveva colpito mi uccidesse definitivamente, smettendola di tormentarmi.
Aprii il copritastiera e presi il libello di spartiti, aprendolo alla pagina dalla cui cima faceva capolino un segnalibro e senza neppure leggere il titolo del brano iniziai a suonare, subendo ogni suono come una martellata alle tempie, cercando di isolarmi il più possibile dalla musica e limitandomi ad eseguire meccanicamente il brano che avevo davanti. Solo in un secondo momento mi accorsi che una parte della composizione doveva essere suonata a quattro mani e proprio un attimo dopo me lo ritrovai seduto accanto, pronto a dividere la tastiera con me. Non so se fu un caso o se lui conoscesse a memoria quel brano ma, nell'esatto momento in cui i suoi glutei si posarono sullo sgabello la presenza di una pausa nello spartito mi permise di alzare gli occhi sulla sua figura perfettamente composta, e ci scambiammo uno sguardo fugace ma così intimo e caldo da provocarmi un brivido lungo la schiena, nulla a che vedere con la freddezza con la quale mi aveva accolta solo pochi minuti prima. Rimasi veramente sorpresa da quel cambio di idea, ricordavo bene ciò che mi aveva raccontato Masha alcune settimane prima, quindi perché? Perché riprendere a suonare proprio con me, proprio quella sera, dopo tanti anni di silenzio? Avrebbe avuto un senso solo se...
Un colpo di tosse che cercavo di reprimere da quando mi ero seduta davanti al piano si ribellò al mio controllo e ruppe quella strana atmosfera come una secchiata di acqua gelida. Tolsi le mani dalla tastiera, interrompendo l'esecuzione di quella splendida melodia incalzante e impetuosa che cedette il posto a quel prepotente suono rauco che proveniva dalla mia gola, e istintivamente le portai alla bocca e al petto mentre mi accartocciai su me stessa cercando di bloccare quelle convulsioni che mi scuotevano al punto da farmi quasi cadere giù dallo sgabello ma, prima che potesse succedere, sentii le braccia di Andrej avvolgermi saldamente, sostenendomi, e la sua voce preoccupata che mi chiamava arrivava alle mie orecchie come un mormorio lontano, appena udibile. Mi cinse le spalle e mi tirò verso di sé, la mia schiena che aderiva al suo petto mentre le sue braccia mi stringevano il seno e la pancia cercando di sostenermi. Maledizione! Non volevo mi vedesse così... fragile, malata, praticamente indifesa, non dopo ciò che era successo a Mosca, non dopo aver scoperto a mie spese che era solo un uomo falso, crudele, incapace di provare qualunque sentimento somigliasse all'affetto e all'amore, estraneo a qualunque gesto non fosse dettato dalla freddezza e dal rigore. Avrei voluto divincolarmi e sciogliere quella sorta di abbraccio in cui mi stringeva ma non avevo la forza per farlo, non ero neppure riuscita a tenere gli occhi aperti ma, quando quella crisi finì, riuscii ad aprirli quel po' che bastava per vedere qualcosa che mi terrorizzò: diverse macchie di sangue avevano colorato i candidi tasti del piano di rosso come se fossero piccoli pois su un foulard, e davanti a questo spettacolo sconvolgente mi resi conto di sentire un sapore ferroso in bocca. Ero spacciata. Dietro la schiena il petto di Andrej si fermò di scatto, come se avesse smesso di respirare davanti a quel pietoso spettacolo per poi riprendere un attimo dopo, quando si scostò dal mio copro esausto quel poco che bastava per sostituire il supporto del suo petto con quello del suo braccio sinistro mentre l'altro scivolò dietro le mie ginocchia. Con enorme disappunto ma con la consapevolezza di non avere più alcuna forza per contrastarlo, mi lasciai sollevare da quelle sue braccia forti e sicure, cullata dal lento ritmo del suo passo mentre appoggiavo la testa sui suoi pettorali caldi e accoglienti, perdendo lentamente conoscenza.

Non mi resi conto di quanto tempo passò, né riuscii a capire bene cosa succedeva attorno a me poiché a pochi attimi di semi lucidità si contrapponevano lunghi periodi di incoscienza. Sentivo delle voci, intravedevo dei volti, avvertivo qualcuno che mi toccava, che mi faceva bere qualcosa ma non riuscivo a riconoscere nessuno, eccetto Andrej. Il suo volto fu l'unico indiscusso protagonista delle immagini che la mia mente mi proponeva, in preda al delirio della febbre.
Cambiavano i luoghi, i periodi, gli eventi ma in tutti i miei sogni lui era sempre lì, intento a guardare lontano come se il suo sguardo mi attraversasse, come se non ci fossi mentre io lo chiamavo, gli correvo incontro senza poterlo raggiungere, sembrava che ad ogni mio passo lui si allontanasse, i suoi contorni diventavano più sbiaditi, sino a quando non spariva completamente, facendomi piombare nel buio più pesto, smarrita per i meandri della mia mente che sembrava prendersi gioco di me.   Ma accadde qualcosa di diverso, sì, diverso, perché nel sogno confuso di una notte riuscii a raggiungerlo, a prenderlo per mano però, proprio quando stavo per guardarlo negli occhi, i miei si aprirono.
Per la prima volta sentivo di essere sveglia, certo ero comunque confusa, stordita e disorientata ma ero lucida.
I miei sensi si riattivarono ad uno ad uno, lentamente, proprio come le luci in un concerto: prima di tutto si accesero i miei occhi e iniziai a distinguere le forme dei mobili della mia stanza, le pesanti tende tirate davanti la grande portafinestra dalla quale filtravano la luce lattea della luna, la specchiera davanti al letto perfettamente in ordine e il piumino beige che mi copriva fino al petto, apparentemente tutto normale; il secondo senso ad attivarsi fu il gusto, facendomi avvertire il classico saporaccio amaro tipico dei farmaci, strappandomi una smorfia e ricordandomi quanta sete avessi. Feci per girarmi verso sinistra così da prendere la bottiglia e il bicchiere che tenevo sul comodino e fu allora che olfatto, tatto e udito entrarono in gioco, tutti insieme, facendomi capire di non essere sola come pensavo... un profumo forte, virile ma più lieve del solito pizzicò le mie narici, contemporaneamente un respiro leggero si insinuò nelle mie orecchie, sottile e leggero come un ago mentre la pelle della mia mano sinistra mi fece percepire la pelle di un'altra mano, grande ma morbida, calda ma rigida. Quelle informazioni vennero trasmesse talmente tanto rapidamente al mio cervello ancora assopito da farmi girare la testa, mi stavo sicuramente sbagliando ma volevo esserne sicura, così girai in maniera relativamente rapida la testa verso sinistra e vidi l'unica persona che non mi sarei mai aspettata di vedere al mio fianco in quel momento. Andrej stava lì, seduto rigidamente composto sulla sedia che prima stava davanti la specchiera, il collo appena piegato all'indietro e gli occhi chiusi, il suo petto si alzava e si abbassava seguendo il suo lento respiro, il braccio sinistro avvolgeva il suo tronco mentre il destro scivolava mollemente sul mio letto e la sua mano copriva mia. Le mie labbra si piegarono in un mezzo sorriso e mi venne spontaneo pensare che fosse l'unico a mantenere una posizione così austera anche quando dormiva mentre io non riuscivo a stare così dritta neanche da sveglia.
Mossi lentamente la mano sotto la sua, non volevo svegliarlo ma solo liberarmi da quella stretta delicata per poter prendere un po' d'acqua ma non riuscii nel mio intento, trovandomi i suoi occhi blu ancora assonnati puntati addosso. Ebbi solo il tempo di sbattere un paio di volte gli occhi che lui era già perfettamente sveglio, vigile, e si era avvicinato ancora di più a me sedendosi sul bordo della sedia imbottita. La sua mano calda posò sulla mia guancia una dolce carezza e, per la prima volta, lo vidi sorridere davvero. Un sorriso spontaneo, sincero gli fece curvare le labbra scoprendo i suoi denti bianchi e lucidi mentre i suoi occhi si liberarono da quel velo di apatia e distacco in cui erano perennemente avvolti. Una luce nuova fece brillare quei due zaffiri incastonati nel suo viso e fu come se fino ad all'ora non li avessi mai visti veramente, come se su quella cinta muraria fatta di oscurità e malinconia che gli circondava l'anima si fosse aperta una crepa da cui poteva uscire un flebile raggio di luce, un frammento di vita, e forse, un impercettibile briciolo di... amore?
Presa da questa illusione istintivamente strinsi la sua mano e cercai di ricambiare quel meraviglioso sorriso, per quanto mi fosse possibile.
<< Sono così felice di poter finalmente rivedere i tuoi occhi... >> mi disse dopo alcuni secondi trascorsi così, ognuno perso nello sguardo dell'altro, le dita intrecciate e i nostri cuori un centimetro più vicini.
<< Anche io... >> risposi con voce rauca, conscia di quanto mi fosse mancato e inspiegabilmente convinta che qualcosa stava cambiando.

Angolo autore:
È vero, sono crudele, l'ultima cosa che serviva ad Ambra e ad Andrej era una bella malattia però potrebbe essere stato il modo giusto per avvicinarli definitivamente no? Lo spero!
Sempre che il moretto qui presente non se ne esca con uno dei suoi disarmati trip mentali ma farò il possibile per tenerlo a bada, promesso!
A parte ciò, volevo ringraziare tutti coloro che mi hanno augurato la buona fortuna per gli esami, siete stati davvero davvero gentili e mi sembra giusto dirvi che quelli fatti finora sono andati bene, fortunatamente, almeno la mia lontananza dalla storia ha avuto un senso ahahah.
Al prossimo capitolo.

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