13. Lacerazione

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Si trovava al poligono di tiro. Stringeva forte il calcio della pistola con entrambe le mani, come se da quello dipendesse la detonazione del suo colpo. Attorno a lui c'era solo bianco. Uno sconfinato, immenso bianco irreale. Eppure era sicuro della sua locazione, ne era assolutamente certo. Impugnava l'arma con destrezza, era pronto a sparare alla sagoma, ma...non c'era alcuna sagoma. Forse doveva solo sparare, sparare alla cieca. Era quello il suo compito, il suo allenamento. Una, due, tre, quattro volte. Finire tutto il caricatore nel vuoto più assoluto.

Allora perché le mani gli tremavano? Perché non voleva farlo? Era il miglior cadetto di tutta l'Accademia, un prodigio, una promessa. Sarebbe diventato comandante un giorno, se avesse continuato su quella strada. Gliel'aveva rivelato il preside in persona. Una missione fuori dall'arca, un glorioso destino. Perché aveva improvvisamente paura? Di cosa? Non c'era nulla.

"Non sparare." Supplicò una vocina nella sua testa. Aveva l'impressione di essere già stato lì. Era spaventato. Eppure l'ansia non faceva parte del suo ventaglio di emozioni. A cos'era dovuto quel panico crescente, le vertigini, il tremore, il fiato corto, le pupille dilatate?

La mano agì senza che lui riuscisse a fermarla, le dita schiacciarono il grilletto, l'arto resistette al rinculo. Tutto il caricatore si svuotò e lui rimase lì, devastato e solo.

Cos'aveva fatto?

Perché?

Davanti a sé Maise cadde a terra in un lago di sangue.

Il vestito bianco, i capelli neri, gli occhi blu come l'oceano.

Era comparsa all'improvviso. O forse c'era sempre stata e non se n'era accorto?

L'aveva fatto volutamente? Inconsciamente l'aveva desiderato? Aveva desiderato la sua morte?

Ulrik corse da lei, cercò di sollevarla, la chiamò, la implorò, iniziò a piangere.

Pianse come un bambino.

Perché l'aveva fatto? Lo sapeva. Ora lo sapeva. Era ingabbiato in un ricordo ed era condannato a commettere sempre gli stessi errori.

Ma perché? Che senso aveva tutto questo? Che senso aveva quell'incubo ricorrente se tanto non poteva mutarne il finale?

Tra le sue braccia non c'era più la sua fidanzata. C'era un corpo molto più leggero e sottile, ora. La sua testa era piegata in una posizione scomoda, riversa all'indietro. Le guance erano scavate e i capelli biondi, ispidi al tatto, coprivano le palpebre chiuse.

Eva.

Eva priva di sensi. Eva tra le sue braccia tremanti. Eva che non era riuscito a salvare. Eva che non era riuscito a proteggere.

Il suo incarico era fallito.

L'Umana era morta.

Ed era stato per mano sua.



«Ulrik!»

Si svegliò boccheggiando. La fronte imperlata di sudore.

«Era solo un incubo.» La voce di Tomas gli era parsa così distante, invece era proprio a fianco a lui. Aveva un aspetto orrendo, con quelle mani rosse e gonfie, le dita scarnificate, il sangue, i vestiti infradiciati e maleodoranti, gli occhi svuotati. «La chiamavi nel sonno.»

Il comandante si mise a sedere, ancora frastornato. Si era addormentato o era svenuto? Non riusciva più a intravedere l'insenatura dalla quale erano fuggiti. Sembrava che la natura avesse nuovamente richiuso tutto, celando il vecchio mondo col suo mantello terroso.

UMANA ∽ L' Antico PotereDove le storie prendono vita. Scoprilo ora